In questa conversazione con il critico d’arte Christian Zervos (Argostoli 1889 – Parigi 1970), Picasso parla d’arte.
Zervos, collezionista ed editore d’arte francese di origine greca, ha dedicato ampia parte della sua vita alla stesura di un catalogo ragionato sull’opera di Picasso che tratta di gran parte delle sue opere note.
Per ragioni di spazio non è stata riportata la conversazione integrale ma una sua significativa parte.
Picasso: “possiamo cercare di adattare all’artista la battuta di quell’uomo che diceva che non c’è nulla di più pericoloso degli strumenti di guerra in mano ai generali. Allo stesso modo nulla è forse più pericoloso della giustizia in mano ai giudici e dei pennelli in mano ai pittori!
Immaginate il pericolo per una società! Ma oggi non abbiamo lo spirito per bandire i poeti e i pittori, perché non abbiamo più idea del danno di tenerli in città. Per mia disgrazia e forse per mio diletto organizzo le cose secondo le mie passioni. Che cosa triste per un pittore che ama le bionde negarsi il piacere di metterle nel quadro perché non vanno bene con il cesto della frutta!
Che miseria per un pittore che detesta le mele doverle usare continuamente perché armonizzano con la tovaglia!
Io metto nei miei quadri tutte le cose che amo.
Tanto peggio per le cose, devono andare d’accordo le une con le altre.
Prima di ora i quadri arrivavano a essere completi progressivamente. Ogni giorno portava qualcosa di nuovo. Un quadro era una somma di addizioni.
Con me un quadro è una somma di distruzioni. Io faccio un quadro e poi proseguo per distruggerlo.
Ma alla fine nulla è perduto: il rosso che ho tolto da una parte appare in un altra. Penso che sarebbe molto interessante registrare fotograficamente non le varie fasi di un dipinto ma le sue metamorfosi. Si potrebbe vedere forse per quale via una mente trova la sua strada fino alla cristallizzazione del suo sogno.
Ma ciò che è realmente molto curioso è vedere che il quadro non cambia in modo basilare, ma che la visione iniziale rimane quasi intatta a dispetto delle apparenze.
(…)
Il quadro non è pensato e deciso in precedenza, piuttosto segue la mobilità del pensiero mentre viene eseguito.
Una volta finito, cambia ancora secondo lo stato d’animo di chi lo sta guardando. Un quadro vive la sua vita come una creatura viva, subendo i cambiamenti che la vita impone giorno per giorno. Ciò è naturale perché un quadro vive solo attraverso chi lo guarda.
Quando sto lavorando a un quadro, penso al bianco e uso il bianco. Ma non posso continuare a lavorare, pensare e usare il bianco: i colori, come i lineamenti, seguono i mutamenti dell’emozione.
(…)
Voglio sviluppare l’abilità di fare un quadro in modo che nessuno possa vedere come è stato fatto.
A quale scopo?
Quello che voglio è che un quadro susciti solo emozione.
(…)
Quando si fa un quadro spesso si scoprono cose belle.
Si dovrebbe badare a queste cose, distruggere il proprio quadro, ricrearlo molte volte. A dire la verità quando si distrugge qualcosa di bello, l’artista non lo sopprime, piuttosto lo trasforma, lo condensa, lo rende più sostanziale.
Il prodotto è il risultato delle scoperte rifiutate.
Altrimenti si diventa l’ammiratore di se stessi. Non vendo nulla a me stesso. In realtà si lavora con pochi colori. Quel che dà l’illusione che siano molti è che sono stati messi al posto giusto. L’arte astratta è solo la pittura: e il dramma? Non vi è arte astratta.
Bisogna sempre cominciare con qualcosa. Bisogna allora togliere ogni apparenza di realtà, non si corrono rischi perché l’idea dell’oggetto ha lasciato un impronta indelebile. È la cosa che ha risvegliato l’artista, ha stimolato le sue idee, eccitato le sue emozioni. Idee e emozioni saranno alla fine prigioniere del suo lavoro; qualunque cosa facciano, non potranno fuggire dal quadro: ne saranno parte integrale, anche quando la loro presenza non è più riconoscibile.
Gli piaccia o no, l’uomo è lo strumento della natura: essa impone su di lui il suo carattere, la sua sembianza.
(…)
Non ci si può opporre alla natura. È più forte del più forte degli uomini! Noi tutti abbiamo ogni interesse di essere in buoni rapporti con essa. Possiamo permetterci una certa libertà ma solo nei dettagli.
Inoltre non vi è un’arte figurativa e una non figurativa.
Ogni cosa ci appare sotto forma di figure. Anche le idee metafisiche sono espresse con figure, perciò potete capire quanto assurdo sarebbe pensare alla pittura senza immagini di figure.
Una persona, un oggetto, un circolo sono figure; agiscono su di noi più o meno intensamente.
Alcune volte sono più vicine alle nostre sensazioni, producono emozioni che riguardano le nostre facoltà affettive; altre riguardano più particolarmente l’intelletto. Devono essere accettate tutte perché il mio spirito ha bisogno di emozioni quanto i miei sensi. Pensate che mi interessi che questo quadro rappresenti due persone? Queste due persone esistevano una volta, ma ora non esistono più. La loro visione mi dava un’emozione iniziale, a poco a poco la loro presenza reale fu oscurata, esse divennero per me una finzione, poi scomparvero, o piuttosto si trasformarono in problemi d’ogni sorta. Per me non sono più due persone, ma forme e colori, capite?
Forme e colori che però racchiudono l’idea delle due persone e conservano la vibrazione della loro vita.
Io mi comporto con la mia pittura come mi comporto con le cose.
Dipingo una finestra proprio come guardo attraverso una finestra. Se questa finestra quando è aperta non appare bella nel mio quadro, tiro una tenda e la nascondo come avrei fatto nella mia stanza.
Bisogna agire in pittura come nella vita, direttamente.
In realtà la pittura ha le sue convenzioni, delle quali è necessario tener conto, poiché non si può fare altrimenti.
Per questa ragione bisogna aver sempre davanti agli occhi il vero aspetto della vita. L’artista è un vero ricettacolo di emozioni venute da non importa dove: dal cielo, dalla terra, da un pezzo di carta, da una figura che passa, da una ragnatela. Ecco perché non bisogna fare discriminazioni tra le cose. Tra esse non vi è rango. Bisogna prendere la propria parte di buono dove si trova, eccetto che nei propri lavori. Ho l’orrore di copiare me stesso, ma non ho esitazioni, quando mi è mostrata una cartella di vecchi disegni, a prendere da essa tutto quello che voglio.
Quando inventammo il cubismo, non avevamo intenzione di inventare il cubismo ma semplicemente di esprimere ciò che era in noi. Nessuno tracciava un programma di azione, e sebbene i nostri amici poeti seguissero attentamente i nostri sforzi, essi non si imposero mai a noi. I giovani pittori d’oggi spesso si preparano a un programma da seguire e sul quale fare affidamento come bravi scolaretti.
Il pittore passa da stati di pienezza ad altri di vuoto.
Questo è tutto il segreto dell’arte. Faccio un viaggio nel bosco di Fontainebleau: là faccio indigestione di verde. Devo mettere questa sensazione in un quadro.
Il verde vi domina.
Il pittore dipinge come se avesse un urgente bisogno di scaricarsi delle sue sensazioni e delle sue visioni.
Gli uomini se ne impossessano come di un mezzo per coprire un poco la loro nudità. Prendono quello che possono e come possono.
Io credo che alla fine non prendano nulla; molto semplicemente si tagliano un cappotto sulla misura della loro stessa incomprensione.
Essi creano a loro immagine ogni cosa: dal Creatore al quadro.
Ecco perché il fissare confini precisi è distruttore per la pittura.
Il quadro ha sempre una certa importanza, almeno quella dell’uomo che lo ha fatto.
Il giorno in cui è comprato e appeso alla parete acquista un’importanza d’altro genere ed è per questo che il quadro è fatto. L’insegnamento accademico della bellezza è falso.
Noi siamo ingannati, ma così bene ingannati che è impossibile recuperare perfino l’ombra della verità. Le bellezze del Partenone, il Vesuvio, le Ninfe, i Narcisi sono altrettante bugie. L’arte non è un’applicazione del canone di bellezza, ma ciò che l’istinto e la bellezza possono concepire indipendentemente dal canone. Quando un uomo ama una donna, non prende gli strumenti e la misura, l’ama con desiderio, per quanto sia stata fatta ogni cosa per mettere il canone perfino all’amore.
A dire il vero il Partenone non è altro che una fattoria con il tetto: colonne e sculture furono aggiunte perché c’era gente ad Atene che lavorava e voleva esprimersi.
Non è ciò che l’artista fa che conta ma ciò che egli è.
Cézanne non mi avrebbe mai interessato se avesse vissuto e dipinto come Jacques-Emile Blanche, anche se la mela che dipinse fosse stata dieci volte più bella Ciò che ci interessa è la non facilità di Cézanne, il vero insegnamento di Cézanne, i tormenti di Van Gogh, cioè il dramma dell’uomo.
Il resto è falso.
Ognuno vuol capire la pittura. Perché non vi è alcun tentativo di capire il canto degli uccelli?
Perché si ama una notte, un fiore, tutto ciò che circonda un uomo senza cercare di capirlo tutto? Mentre per la pittura si vuole capire. Fate che si capisca che l’artista lavora per necessità, che è egli pure un elemento minimo del mondo, al quale non si dovrebbe dare maggiore importanza di quanta se ne dà alle molte cose naturali che ci affascinano ma che non ci spieghiamo.
Coloro che cercano di spiegare un quadro sono quasi sempre sulla strada sbagliata.
Gertrude Stein qualche tempo fa mi annunciò gioiosamente che aveva finalmente capito che cosa rappresentava un mio quadro: tre musicisti. Era una natura morta!
Come potrebbe un mio spettatore vivere un mio quadro come lo vissi io?
Un quadro viene a me da molto lontano, chissà quanto lontano, io lo sentii, lo vidi, lo feci e tuttavia, il giorno dopo, io stesso non vedo quello che ho fatto.
Come può una persona penetrare i miei sogni, i miei desideri, i miei istinti, i miei pensieri, che hanno impiegato tanto tempo per elaborarsi e portarsi alla luce; soprattutto come può cogliere in essi quel che io ne ho fatto, magari contro la mia volontà.
Eccetto alcuni autori che stanno aprendo nuovi orizzonti alla pittura, i giovani d’oggi non sanno più dove andare. Invece di prendere le nostre ricerche per reagire contro di noi, si dedicano a rianimare il passato. Tuttavia il mondo è aperto davanti a noi, ogni cosa è ancora da farsi e non da rifarsi.
(…)
Non sono un pessimista, non disdegno l’arte, poiché non posso vivere senza dedicare a essa tutte le mie ore. L’amo come l’intero fine della mia vita.
Tutto quello che faccio in relazione alla mia arte mi dà una gioia tremenda.
(…)
Abbiamo imposto sui quadri dei musei tutte le nostre stupidità, i nostri errori, le pretese del nostro spirito. Di essi abbiamo fatto povere, ridicole cose. Ci aggrappiamo ai miti invece di intuire la vita intima degli uomini che li hanno dipinti.
(…)
Si dovrebbe fare una rivoluzione soprattutto contro il buon senso. Il vero dittatore sarà sempre conquistato dalla dittatura del buon senso. …Forse no”.
fonte: C. Zervos, Conversation with Picasso, in Adriano Pagnin, Stefania Vergine, Il pensiero creativo, La Nuova Italia, Firenze, 1974, pag. 133-140.