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ZERVOS-PICASSO: quando un uomo ama una donna

In questa conversazione con il critico d’arte Christian Zervos (Argostoli 1889Parigi 1970), Picasso parla d’arte.

Zervos, collezionista ed editore d’arte francese di origine greca, ha dedicato ampia parte della sua vita alla stesura di un catalogo ragionato sull’opera di Picasso che tratta di gran parte delle sue opere note.

Per ragioni di spazio non è stata riportata la conversazione integrale ma una sua significativa parte.

Picasso drawing with Paloma and Claude at Villa la Galloise, 1953. By Edward Quinn/© EdwardQuinn.com.
Picasso drawing with Paloma and Claude at Villa la Galloise, 1953.
By Edward Quinn/© EdwardQuinn.com.

Picasso: “possiamo cercare di adattare all’artista la battuta di quell’uomo che diceva che non c’è nulla di più pericoloso degli strumenti di guerra in mano ai generali. Allo stesso modo nulla è forse più pericoloso della giustizia in mano ai giudici e dei pennelli in mano ai pittori!

Immaginate il pericolo per una società! Ma oggi non abbiamo lo spirito per bandire i poeti e i pittori, perché non abbiamo più idea del danno di tenerli in città. Per mia disgrazia e forse per mio diletto organizzo le cose secondo le mie passioni. Che cosa triste per un pittore che ama le bionde negarsi il piacere di metterle nel quadro perché non vanno bene con il cesto della frutta!

Che miseria per un pittore che detesta le mele doverle usare continuamente perché armonizzano con la tovaglia!

Io metto nei miei quadri tutte le cose che amo.

Tanto peggio per le cose, devono andare d’accordo le une con le altre.

Prima di ora i quadri arrivavano a essere completi progressivamente. Ogni giorno portava qualcosa di nuovo. Un quadro era una somma di addizioni.

Con me un quadro è una somma di distruzioni. Io faccio un quadro e poi proseguo per distruggerlo.

Ma alla fine nulla è perduto: il rosso che ho tolto da una parte appare in un altra.  Penso che sarebbe molto interessante registrare fotograficamente non le varie fasi di un dipinto ma le sue metamorfosi. Si potrebbe vedere forse per quale via una mente trova la sua strada fino alla cristallizzazione del suo sogno.

Ma ciò che è realmente molto curioso è vedere che il quadro non cambia in modo basilare, ma che la visione iniziale rimane quasi intatta a dispetto delle apparenze.

(…)

Il quadro non è pensato e deciso in precedenza, piuttosto segue la mobilità del pensiero mentre viene eseguito.

Una volta finito, cambia ancora secondo lo stato d’animo di chi lo sta guardando. Un quadro vive la sua vita come una creatura viva, subendo i cambiamenti che la vita impone giorno per giorno. Ciò è naturale perché un quadro vive solo attraverso chi lo guarda.

Quando sto lavorando a un quadro, penso al bianco e uso il bianco. Ma non posso continuare a lavorare, pensare e usare il bianco: i colori, come i lineamenti, seguono i mutamenti dell’emozione.

(…)

Voglio sviluppare l’abilità di fare un quadro in modo che nessuno possa vedere come è stato fatto.

A quale scopo?

Quello che voglio è che un quadro susciti solo emozione.

(…)

Quando si fa un quadro spesso si scoprono cose belle.

Si dovrebbe badare a queste cose, distruggere il proprio quadro, ricrearlo molte volte. A dire la verità quando si distrugge qualcosa di bello, l’artista non lo sopprime, piuttosto lo trasforma, lo condensa, lo rende più sostanziale.

Il prodotto è il risultato delle scoperte rifiutate.

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Altrimenti si diventa l’ammiratore di se stessi. Non vendo nulla a me stesso.  In realtà si lavora con pochi colori. Quel che dà l’illusione che siano molti è che sono stati messi al posto giusto. L’arte astratta è solo la pittura: e il dramma? Non vi è arte astratta.

Bisogna sempre cominciare con qualcosa. Bisogna allora togliere ogni apparenza di realtà, non si corrono rischi perché l’idea dell’oggetto ha lasciato un impronta indelebile. È la cosa che ha risvegliato l’artista, ha stimolato le sue idee, eccitato le sue emozioni. Idee e emozioni saranno alla fine prigioniere del suo lavoro; qualunque cosa facciano, non potranno fuggire dal quadro: ne saranno parte integrale, anche quando la loro presenza non è più riconoscibile.

Gli piaccia o no, l’uomo è lo strumento della natura: essa impone su di lui il suo carattere, la sua sembianza.

(…)

Non ci si può opporre alla natura. È più forte del più forte degli uomini! Noi tutti abbiamo ogni interesse di essere in buoni rapporti con essa. Possiamo permetterci una certa libertà ma solo nei dettagli.

Inoltre non vi è un’arte figurativa e una non figurativa.

Ogni cosa ci appare sotto forma di figure. Anche le idee metafisiche sono espresse con figure, perciò potete capire quanto assurdo sarebbe pensare alla pittura senza immagini di figure.

Una persona, un oggetto, un circolo sono figure; agiscono su di noi più o meno intensamente.

Alcune volte sono più vicine alle nostre sensazioni, producono emozioni che riguardano le nostre facoltà affettive; altre riguardano più particolarmente l’intelletto. Devono essere accettate tutte perché il mio spirito ha bisogno di emozioni quanto i miei sensi. Pensate che mi interessi che questo quadro rappresenti due persone? Queste due persone esistevano una volta, ma ora non esistono più. La loro visione mi dava un’emozione iniziale, a poco a poco la loro presenza reale fu oscurata, esse divennero per me una finzione, poi scomparvero, o piuttosto si trasformarono in problemi d’ogni sorta. Per me non sono più due persone, ma forme e colori, capite?

Forme e colori che però racchiudono l’idea delle due persone e conservano la vibrazione della loro vita.

Io mi comporto con la mia pittura come mi comporto con le cose.

Dipingo una finestra proprio come guardo attraverso una finestra. Se questa finestra quando è aperta non appare bella nel mio quadro, tiro una tenda e la nascondo come avrei fatto nella mia stanza.

Bisogna agire in pittura come nella vita, direttamente.

 

In realtà la pittura ha le sue convenzioni, delle quali è necessario tener conto, poiché non si può fare altrimenti.

Per questa ragione bisogna aver sempre davanti agli occhi il vero aspetto della vita. L’artista è un vero ricettacolo di emozioni venute da non importa dove: dal cielo, dalla terra, da un pezzo di carta, da una figura che passa, da una ragnatela. Ecco perché non bisogna fare discriminazioni tra le cose. Tra esse non vi è rango. Bisogna prendere la propria parte di buono dove si trova, eccetto che nei propri lavori. Ho l’orrore di copiare me stesso, ma non ho esitazioni, quando mi è mostrata una cartella di vecchi disegni, a prendere da essa tutto quello che voglio.

Quando inventammo il cubismo, non avevamo intenzione di inventare il cubismo ma semplicemente di esprimere ciò che era in noi.  Nessuno tracciava un programma di azione, e sebbene i nostri amici poeti seguissero attentamente i nostri sforzi, essi non si imposero mai a noi. I giovani pittori d’oggi spesso si preparano a un programma da seguire e sul quale fare affidamento come bravi scolaretti. 

Il pittore passa da stati di pienezza ad altri di vuoto. 

Questo è tutto il segreto dell’arte. Faccio un viaggio nel bosco di Fontainebleau: là faccio indigestione di verde. Devo mettere questa sensazione in un quadro.

Il verde vi domina.

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Il pittore dipinge come se avesse un urgente bisogno di scaricarsi delle sue sensazioni e delle sue visioni.

Gli uomini se ne impossessano come di un mezzo per coprire un poco la loro nudità. Prendono quello che possono e come possono.

Io credo che alla fine non prendano nulla; molto semplicemente si tagliano un cappotto sulla misura della loro stessa incomprensione.

Essi creano a loro immagine ogni cosa: dal Creatore al quadro.

Ecco perché il fissare confini precisi è distruttore per la pittura.

Il quadro ha sempre una certa importanza, almeno quella dell’uomo che lo ha fatto.

Il giorno in cui è comprato e appeso alla parete acquista un’importanza d’altro genere ed è per questo che il quadro è fatto. L’insegnamento accademico della bellezza è falso.

Noi siamo ingannati, ma così bene ingannati che è impossibile recuperare perfino l’ombra della verità. Le bellezze del Partenone, il Vesuvio, le Ninfe, i Narcisi sono altrettante bugie. L’arte non è un’applicazione del canone di bellezza, ma ciò che l’istinto e la bellezza possono concepire indipendentemente dal canone. Quando un uomo ama una donna, non prende gli strumenti e la misura, l’ama con desiderio, per quanto sia stata fatta ogni cosa per mettere il canone perfino all’amore.

A dire il vero il Partenone non è altro che una fattoria con il tetto: colonne e sculture furono aggiunte perché c’era gente ad Atene che lavorava e voleva esprimersi.

Non è ciò che l’artista fa che conta ma ciò che egli è.

Cézanne non mi avrebbe mai interessato se avesse vissuto e dipinto come Jacques-Emile Blanche, anche se la mela che dipinse fosse stata dieci volte più bella Ciò che ci interessa è la non facilità di Cézanne, il vero insegnamento di Cézanne, i tormenti di Van Gogh, cioè il dramma dell’uomo. 

Il resto è falso.

Ognuno vuol capire la pittura. Perché non vi è alcun tentativo di capire il canto degli uccelli?

Perché si ama una notte, un fiore, tutto ciò che circonda un uomo senza cercare di capirlo tutto? Mentre per la pittura si vuole capire. Fate che si capisca che l’artista lavora per necessità, che è egli pure un elemento minimo del mondo, al quale non si dovrebbe dare maggiore importanza di quanta se ne dà alle molte cose naturali che ci affascinano ma che non ci spieghiamo.

Coloro che cercano di spiegare un quadro sono quasi sempre sulla strada sbagliata.

Gertrude Stein qualche tempo fa mi annunciò gioiosamente che aveva finalmente capito che cosa rappresentava un mio quadro: tre musicisti. Era una natura morta!

Come potrebbe un mio spettatore vivere un mio quadro come lo vissi io?

Un quadro viene a me da molto lontano, chissà quanto lontano, io lo sentii, lo vidi, lo feci e tuttavia, il giorno dopo, io stesso non vedo quello che ho fatto.

Come può una persona penetrare i miei sogni, i miei desideri, i miei istinti, i miei pensieri, che hanno impiegato tanto tempo per elaborarsi e portarsi alla luce; soprattutto come può cogliere in essi quel che io ne ho fatto, magari contro la mia volontà. 

Eccetto alcuni autori che stanno aprendo nuovi orizzonti alla pittura, i giovani d’oggi non sanno più dove andare. Invece di prendere le nostre ricerche per reagire contro di noi, si dedicano a rianimare il passato. Tuttavia il mondo è aperto davanti a noi, ogni cosa è ancora da farsi e non da rifarsi.

(…)

Non sono un pessimista, non disdegno l’arte, poiché non posso vivere senza dedicare a essa tutte le mie ore. L’amo come l’intero fine della mia vita.

Tutto quello che faccio in relazione alla mia arte mi dà una gioia tremenda.

(…)

Abbiamo imposto sui quadri dei musei tutte le nostre stupidità, i nostri errori, le pretese del nostro spirito. Di essi abbiamo fatto povere, ridicole cose.  Ci aggrappiamo ai miti invece di intuire la vita intima degli uomini che li hanno dipinti.

(…)

Si dovrebbe fare una rivoluzione soprattutto contro il buon senso. Il vero dittatore sarà sempre conquistato dalla dittatura del buon senso. …Forse no”.

fonte: C. Zervos, Conversation with Picasso, in Adriano Pagnin, Stefania Vergine, Il pensiero creativo, La Nuova Italia, Firenze, 1974, pag. 133-140.

IL PENSIERO CREATIVO: una lettera di W.A. Mozart

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Johannes Chrysostomus Wolfgangus Theophilus Mozart (Salisburgo, 27 gennaio 1756 – Vienna, 5 dicembre 1791) compositore e pianista, creatore di opere musicali straordinarie, in questa lettera cerca di rendere l’idea del processo creativo che lo porta a comporre.

Si tratta di una missiva attribuita a Mozart, indirizzata al “Baron V” dove il grande artista scrive, in apertura:

 “I now come to the most difficult part of your letter, which I would willingly pass over in silence, for here my pen denies me its service. Still I will try, even at the risk of being well laughed at. You say you should like to know my way of composing, and what method I follow in writing works of some extent. I can really say no more on this subject than the following, for I myself know no more about it, and cannot account for it”.

Prosegue:

“Quando sono, per così dire, completamente me stesso, totalmente solo, e di buon umore, (mentre viaggio in carrozza, mentre passeggio dopo un buon pasto, o durante la notte quando non riesco a prendere sonno), è proprio in tali occasioni che le mie idee fluiscono meglio e più numerose.

“Donde” e “come” giungono, io non so; e neppure posso forzarle.

Quelle che mi piacciono le trattengo nella memoria, e solitamente, sono abituato a mormorarle a me stesso. Continuando in questo modo, prima o poi mi viene in mente come fare di questo o quel boccone un buon piatto, seguendo le regole del contrappunto, le  caratteristiche dei vari strumenti, ecc.

Tutto ciò mi infiamma l’anima, e se non sono disturbato, il soggetto si ingrandisce, diventa definito ed organizzato, e tutto l’insieme, anche se lungo, si dispone e resta quasi completo e finito nella mia mente: in modo che, in un unico sguardo, lo posso contemplare come un bel quadro od una bella statua.

Nella mia mente, non odo le sezioni in successione, ma addirittura le odo contemporaneamente (gleich alles zusammen). Che gioia sia per me tutto ciò non posso descriverlo! Tutto questo inventare, questo produrre, avviene come in un piacevole e vivido sogno, ma il momento più bello rimane quando sento tutto risuonare insieme (“tout ensemble”).

Non dimentico facilmente tutto quanto abbia preso forma in me in tal modo; e forse questo è il più bel dono per il quale io debbo gratitudine al mio divino Creatore.

Quando poi debbo scrivere le mie idee, estraggo dalla borsa della mia memoria, se mi è lecito usare questa espressione, ciò che vi ho riposto nella maniera che vi ho prima descritto.

Per questa ragione fissare il tutto sulla carta  diventa un’operazione assai veloce.

Come ho già detto, tutto è già compiuto, e raramente ciò che appare sulla carta differisce da quello che si era formato nella mia immaginazione.

In questa fase posso anche soffrire di essere disturbato, ma qualunque cosa avvenga intorno a me, che io parli di oche o di volatili, di Gretel o di Barberina, o di altri simili discorsi, io scrivo e resto in un mondo fantastico.

Ma la ragione per cui, le mie composizioni, dalle mie mani, assumono quella particolare forma e lo stile che le rende “Mozartiane”, e perciò diverse da quelle di altri compositori, è probabilmente dovuta alla stessa causa che rende il mio naso così grande ed aquilino, differente da quello di altra gente: io  non tendo nè miro ad alcuna originalità.”

                                                               mozz

 Fonti:

Edward Holmes, The Life of Mozart: Including his corrspondence, Harper & brothers, New York, 1845, pag. 329.

Pagnin, Vergine, il pensiero creativo, La Nuova Italia, Firenze, 1974, pag. 132-133.

W.A. Mozart, A Letter, in B. Ghiselin, The Creative Process,  University of California Press, Los Angeles, 1952, pp. 44-52

https://archive.org/stream/creativeprocessa013702mbp/creativeprocessa013702mbp_djvu.txt

Intervista: MAURO TIBERI “filosofia della musica”

Di cosa avete letto questa estate?

Quali autori hanno accompagnato le vostre benedette, calde ore di sole?Per quanto mi riguarda, il tema dominante è stato la musica e in particolare, il canto. Da lì a ricordare la mia tesi di laurea, dedicata proprio alla voce, il passo è stato breve, anche se quel lavoro risaliva a ben dieci anni fa. Tesi che riguardava la voce e le sue potenzialità espressive.

Il nostro parlare è un atto creativo simile a quello che compie un musicista, parlando o cantando stiamo suonando uno strumento naturale e umano che è unione di corpo e psiche: soggetto che suona e strumento suonato si identificano. Nella voce, unica come ognuno di noi,  si trova ciò che siamo, dalle eredità genetiche alle successive esperienze che hanno caratterizzato la nostra vita.

Si tratta di un messaggio sonoro carico di significati.

In realtà tutto ciò che ci circonda è carico di significati, per chi lo sa ascoltare: il vento e il suo modo di sfiorare le foglie, lo scricchiolìo di una corteccia, l’acqua che massaggia uno scoglio. Tutto racconta. Possiamo connetterci alla dimensione sonora dell’esistenza. Una poesia del poeta Gibran, dai forti legami con il misticismo sufi e divenuta poi canzone interpretata da Fairuz, recita più o meno così:

“Passami il nay e canta perché il canto è il segreto dell’universo e la musica resterà oltre la fine dei tempi”.

E così, a tutti è dato di poter giocare con la voce, comunicando idee, immagini, emozioni, attraverso forme espressive altre, non convenzionali, sul piano fisico, psichico e spirituale.

“Tutto scorre” e anche la voce si modifica in base alle esperienze che viviamo.

Non è mai solo un mezzo informativo dal punto di vista linguistico. E’ comunicazione in senso lato, su più livelli, come la Scuola di Palo Alto insegna ma soprattutto come il nostro “istinto” sa riconoscere. Anche di questo si occupa l’artista che sono molto felice di presentarvi in questa nuova intervista. Per esperienza, posso dire che il lavoro con lui è in grado di schiudere inedite prospettive su se stessi e sull’altro, dove la creatività regna sovrana. Un lavoro profondo, in grado di riconnettere chi lo fa a energie naturali forti e ancestrali. Mauro Tiberi,  è polistrumentista, ricercatore vocale, musicista. Le sua formazione spazia dal canto difonico alla vocalità sacra orientale interessandosi anche di canto indiano negli stili dhrupad, kyal e qawwali  e canto indoeuropeo. Mauro ha fuso le conoscenze provenienti da varie tradizioni artistiche e percorre l’Italia e non solo, per esibirsi come musicista e lavorare con guppi di persone interessate alla sperimentazione di nuove forme espressive.

Da molti anni ha creato e conduce la rassegna “I Canti Misterici” nella basilica di San  Giorgo al Velabro a Roma. http://www.maurotiberi.comphoto.php

 

Da bambino eri già interessato alla musica?

Da bambino mi divertivo a suonare un pianoforte giocattolo Bontempi, poi dopo una chitarrafinta, sempre  Bontempi, su cui componevo canzoni in inglese inventato … (i danni della colonizzazione culturale americana nei primi anni 70). 

Invece, importante segno per il mio futuro, cantavo molto dalla finestra e così mia madre conosceva tantissime signore, inventavo canzoni con le parole … chissà quante cose diciamo, “fantasiose” avrò inventato… però avevano un risultato, vedere  questo bambino di circa 5 anni che cantava dalla finestra aveva destato molto in positivo l’attenzione del vicinato … poi, in seguito, le canzoni, in generale, non le ho mai più particolarmente apprezzate, ho sempre avuto più interesse per la musica strumentale e per un uso strumentale della voce. Tutto questo per dire, si, da bambino ero molto interessato alla musica. 

Quali incontri hanno pesato di più sul tuo percorso artistico?

Sempre da bambino, un incontro importante è stata l’India. 

Nei primi anni 70 mia madre lavorava come commessa in un negozio di oggetti e  stoffe provenienti dall’India e io ho passato tanti pomeriggi a cercare di suonare sitar, tampoure e altri strumenti sconosciuti,  anche mezzi rotti che giungevano  nel negozio. In seguito, quando nella mia vita dopo vari studi e lavori la musica è diventata la mia professione, molto significativi sono stati gli incontri con Michiko Hirayama una ormai molto vecchia grande cantante giapponese e tantissimi altri musicisti. Ma oltre le persone e i professionisti in genere, la cultura di una nazione ha dato l’impulso più importante alla mia visione della musica, al cercare di recuperare la funzione sociale e spirituale di quest’arte che oltre l’ascolto dell’aspetto estetico dei suoni  contiene tantissime altre cose utili alla salute, all’educazione e ad ampliare la visione delle cose. 

Determinante è stato un viaggio di lavoro in Iran che mi ha fatto vivere la funzione sociale delmusicista e, tornato in Italia da quel momento in poi ho  cercato di vivere così la musica. 

Non cercando la “popolarità” per essere chiari quando si  parla di sociale, ma di portare nella società i benefici  educativi che quest’arte riesce a dare  nella crescita spirituale, sociale, etica e fisica  dell’essere umano.

 

Mauro a Mecenate

Il tuo lavoro mira a creare armonia nella persona e di riflesso nella società. Questa finalità nel lavoro con il suono è tipica di molte culture, penso a quella della Mongolia, alla tradizione sufi, ma anche a quella della Grecia antica con i riti misterici e molte altre. Ti ispiri a qualche tradizione culturale, in particolare?

Si. Un pochino prendo da tutte queste culture  che hai citato nella domanda, però non sono mai riuscito ad aderire totalmente ad una di queste importanti filosofie. Credo di essere, sotto certi punti di vista, un sufi eclettico e sincretico allo stesso tempo.  Il mio obiettivo è quello di portare armonia, pace e gioia e la capacità di vivere l’amore nel senso più grande del termine… ci provo, non sempre ci riesco, però e per questo che mi sento un po’ un sufi.  

Ci sarebbe molto da aggiungere slegando il sufismo dalla religione … però si allargherebbe  troppo il discorso.  

La natura con i suoi infiniti suoni di vento, acqua, piante, animali, ha insegnato all’uomo la musica e gli ha dato l’ispirazione per creare a sua volta. Oggi molti bambini vivono in universi sonori poveri, le città, dove prevalgono suoni artificiali, auto, clacson, rumori di vario tipo. 

Questo è un problema reale che è molto più esteso della questione del suono, ma è legato alla disumanizzazione della vita, alla perdita dei rapporti con la natura e  con la natura umana …

Chi sono, oggi, coloro che si rivolgono a te per lavorare sulla voce e sul suono?

Molte persone che hanno voglia di conoscersi meglio attraverso la loro voce, persone che hanno timidezze o hanno capito di avere un grande potenziale esprimibile attraverso la voce vogliono conoscerlo meglio e svilupparlo ai fini del benessere e della comunicazione della loro essenza. Ho pochi professionisti, un 10% forse anche un po’ meno di professionisti intesi come cantanti, attori ecc, ma molti altri che sono professionisti della voce a loro insaputa …

Attraverso il lavoro sul suono è possibile sperimentare particolari stati non ordinari di coscienza?

Certamente. Questo è argomento di interesse di scienziati e c’è tantissima letteratura a  riguardo sui rapporti tra musica e trance  e in alcune esperienze è molto facile sperimentare stati non ordinari di coscienza attraverso il suono.

Daresti qualche idea per migliorare le ore di musica a scuola?

Fare laboratori di musica d’insieme destinati a chi non sa suonare e cantare e che forse non lo farà mai nella vita, mescolando a questi anche chi sa già suonare. Il risultato non sarà grande musica, ma una grande esperienza umana, poi una volta compreso dagli studenti cosa è realmente la musica, si potrà parlare di Bach e Beethoven e non saranno più, per la maggioranza degli studenti, la sorpassata espressione di una cultura  borghese …

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Intervista: FEDERICO BIANCALANI “Des ailes couvrent les feuilles”

Una sera di Aprile, quando ancora non era primavera ma di certo l’inverno era finito, sono andata a teatro per la messa in scena di un’opera minore di Čechov.

In quella occasione ho visto in scena una delle ultime creazioni di Federico Biancalani.

Mi ha incuriosito non poco.

Quel ”viaggio” in Russia aveva lasciato intravedere paesaggi che volevo visitare subito, scendendo dal treno e andando a piedi, con tutta la voglia di dare spazio alla meraviglia.

Felicemente persa, eccomi a raccontare.

Scenografia, illustrazione, formazione, scultura, pittura, grafica, sono gli ambiti in cui il lavoro di Biancalani si concretizza.

Una solida formazione e numerose, notevoli esperienze, spesso riconosciute da premi e menzioni di merito, lo caratterizzano. Un lavoro che si configura come ricerca espressiva costante, in dialogo aperto con il momento presente e le sue dimensioni più recondite.

La natura spesso è messa in scena e celebrata con una semplicità minimalista che ne esalta la straordinarietà.

Creazioni che rimandano a una dimensione dell’essere che si colloca tra ragione e inconscio, sonno e veglia, dinamica e stasi.

Ti trovi davanti a una sua illustrazione e pensi al surrealismo.

Ma poi dimentichi questa parola. Del resto non è che una definizione, mentre, per rifarmi alle parole di qualcun altro, l’arte dà forma agli enigmi e lascia perdere le soluzioni.

Per conoscere meglio Federico Biancalani, oltre a leggere questa intervista, si può navigare verso il suo sito, l’esperienza diretta saprà dire certo più delle mie parole.

http://www.federicobiancalani.com/

babbo.jpg: Opera di Federico Biancalani, Titolo: Babbo, tecnica: acquerello su carta, 25x35 cm, 1978
Opera di Federico Biancalani, Titolo: Babbo, tecnica: acquerello su carta, 25×35 cm, 1978

Federico, da bambino,  sapeva già che lavoro voleva fare da grande?

‘Federico da grande’ sa che ‘Federico da bambino’ è ormai perso e non vuol fare come certe vedove che mettono in bocca al marito defunto affermazioni che il marito non si sarebbe mai sognato. ‘Federico da grande’ stenta a trovare un collocamento esatto nel mondo e pensa che probabilmente anche ‘Federico da bambino’ non avesse idee più chiare. Quando ‘Federico da grande’ guarda ‘Federico da bambino’ nella immagine del profilo della sua pagina Facebook – alla guida di una macchinina di plastica gialla, con casco ed occhiali da velocità – gli pare di riscontrare una sfumatura interrogativa negli occhi, come dicesse “Si ma ora ‘ndo vado? Piove pure!”

federico.jpeg: Opera di Antonio Biancalani, Titolo: Federico, tecnica: olio su tavola, 120x150 cm, 1979
Opera di Antonio Biancalani, Titolo: Federico, tecnica: olio su tavola, 120×150 cm, 1979

Ci sono stati incontri importanti, in grado di influenzare positivamente il tuo percorso artistico?

 Mio padre è un pittore e pertanto pennelli, colori e odori di olio di lino hanno influenzato il mio orizzonte sensoriale sin da bambino. Lo studio di mio padre era una stanza al primo piano. Il pavimento in cotto, poggiato su travi e travicelli di legno, era elastico. Camminandoci oscillava come un delicato terremoto sussultorio. Appoggiato su una sedia e con le ginocchia per terra disegnavo divertito da quella oscillazione. Tutto ciò credo sia una influenza talmente radicale da non sapere come descriverla se non sottoforma di ricordi sensoriali. Al liceo artistico gli impiantiti erano piuttosto stabili, ma per fortuna c’era Rosetta Di Ruggiero – insegnate di plastica, bravissima restauratrice e persona dalla vitalità sismatica. L’irruenza sismatica di Rosetta era ben più scioccante del pavimento di mio padre, aveva il pregio di allargare gli orizzonti e di sgretolare quelle costruzioni effimire e seriose – tanto care al giovane artista – incoraggiandoti a costruzioni ariose da porre al cimento dell’ironia e della sperimentazione. Recentemente ho fatto l’allegra conoscenza di Michele Sinisi, valoroso regista e attore. Per quanto diversi per temperamento ci troviamo a spartire la stessa passione per la vivacità dei terremoti, per il piacere di perturbare le convenzioni ed appendere alla porta del teatro il cartello:

‘Work-in-progress’

‘Vietato l’accesso agli addetti ai lavori’

 Osservando le tue creazioni emerge una costante, incontenibile ricerca di nuove forme espressive: cosa riesce a orientarti ?

 In verità mi trovo spesso disorientato, e in verità ho un pessimo senso dell’orientamento anche per le strade, talmente pessimo da sfiorare la patologia. All’inizio mi si presentano molte possibilità, tante strade possibili, e quello che mi è più chiaro è ciò che non voglio. Poi comincia a precisarsi quello che voglio e comincio ad intuire  qualcosa che sottende e muove le possibilità singole, come se la struttura topografica delle strade si facesse più chiara, allora seguendo quel qualcosa riesco ad orientarmi. Credo esista una differenza tra la pensata e l’idea. La pensata è qualcosa che finisce lì, l’idea è una dinamica di più ampia che richiede sintesi e che va trovata nell’immanenza della prassi, dei materiali e degli strumenti. Finche non intuisco qualcosa che si avvicini ad un’idea continuo a pesticciare per i vicoli piuttosto nervosamente.

 È possibile rintracciare una specifica tonalità, un tema ricorrente in tutto quello che crei?

 Su un piano formale e tecnico se dovessi individuare due qualità ricorrenti direi leggerezza e trasparenza. Se ciò che ho detto riguardo all’immanenza non è solo una speculazione ma qualcosa che appartiene a quello che faccio, queste due qualità dovrebbero significare qualcosa anche ad un livello più ampio, ma onestamente non so cosa.

- stultifera_navis.jpg: Opera di Federico Biancalani, Titolo: Stultifera Navis, Tecnica: rete in acciaio armonico e ferro, dimensioni variabili, 2013
Opera di Federico Biancalani, Titolo: Stultifera Navis, Tecnica: rete in acciaio armonico e ferro, dimensioni variabili, 2013

Il tuo recente lavoro come scenografo di “Miseria e Nobiltà”, per la regia di Michele Sinisi, ha riscontrato un grande consenso di pubblico e di critica. Vuoi parlarci di questa esperienza?

Lo spettacolo ancor prima di ricevere un grande consenso di pubblico e critica ha ricevuto il grandissimo consenso di chi ci ha lavorato. Più che ad uno spettacolo abbiamo pensato a questo progetto come ad una festa su miseria e nobiltà. A tal fine tutti – i dieci meraviglosi istrioni, il drammaturgo Francesco Asselta, gli aiuti regista, i tecnici, la produzione, i laboratorianti – tutti hanno contribuito meravigliosamente a mantenere questa fucina ad un regime di fuoco scoppiettante se non divampante. Purtroppo l’arte viene frequentata sempre più dai soli addetti ai lavori e gli ambienti artistici stanno diventando circuiti sempre più chiusi e seriosi. La festa è una dimensione che abbiamo cercato per ritrovare l’aspetto ludico del teatro, per  tentare di rompere la chiusura dei circuiti artistici e riconquistare l’originaria funzione di rito collettivo. Ricordiamoci che anticamente il teatro era solo una parte di ritualità ben più ampie come le dionisie greche, i ludi latini, le sacre rappresentazioni etc.

Abbiamo dunque cercato un respiro ampio, abbiamo attivato laboratori attoriali e scenografici, lavorando sul palco con prove costantemente aperte al pubblico; dal punto di vista della messa in scena abbiamo giocato con i momenti memorabili del testo, concentrandoci su quelle scene ormai divenute parte dell’immaginario comune. Il progetto si è alimentato di questa energia collettiva.

Finite le prove succedeva spesso di trovarsi in qualche posto e di continuare a lavorare a suon di danze e Moscov Mule. Lavoravamo circa 12 ore al giorno, la pausa pranzo era spesso breve e frugale ed a fine prove, affamatissimi, saccheggiavamo i buffet degli Happy Hour milanesi come fossimo veramente i poveri di Miseria&Nobiltà quando arrivano a casa del cuoco arricchito. Un metodo Stanislawsky riportato alla concretezza fisiologica dei succhi gastrici!

- IMG_2222.jpeg: Miseria&Nobiltà, foto di scena
Miseria&Nobiltà, foto di scena

 

Nel tuo lavoro ti occupi spesso di infanzia, ragazzi, educazione. Quali obiettivi ti prefiggi di raggiungere in questi casi?

Durante il fermento chiassoso di un laboratorio sull’argilla con un gruppo di quattro anni, un bambino viene da me e mi mostra un piccolo ovulo d’argilla dicendo “Guarda, ho fatto un sasso!”. Senza dubbio il manufatto, nella sua semplicità, coglieva il soggetto con una compiutezza formale degna del miglior Canova. Dopo dieci minuti torna da me mostrandomi lo stesso manufatto e dice “Guarda, ho fatto un pinolo!”. Ignoro se in quei dieci minuti il pargolo abbia fatto e disfatto quaranta volte l’ovuletto, o se invece non l’abbia neanche toccato, sta di fatto che sono rimasto folgorato da ciò che mi aveva mostrato. L’approccio infantile a quelle attività che noi adulti chiamiamo artistiche mi ha spesso aperto delle prospettive che sono dei veri baratri.

Nei miei laboratori probabilmente cerco uno scambio, non credo di volere e potere insegnare qualcosa. Quello che tento di fare è ciò che fa un bravo vinificatore: l’uva fermenta da sola e il vinificatore  la sorveglia, pulisce i tubi e rimuove le fecce quando è il momento. Credo che l’infanzia disponga di lieviti freschi capaci di fermentazioni estetiche sorprendenti e che tali fermentazioni vadano assecondate per quello che sono. Bisogna dimenticarsi soprattutto del nostro concetto adulto di arte, anzi il nostro concetto di arte è proprio quella feccia che va rimossa perché non ‘adulteri’ il vino. In altre parole il processo va curato senza pretendere il risultato. Ogni stagione, ogni uva darà un vino irripetibile, ma oggidì gli enologi vanno per le cantine con le mazzette colore e stabiliscono a priori come dovrà essere il vino. C’è troppa attenzione sull’infanzia, mi piace pensare potergli regalare dei momenti di disattenzione, una botte vuota in cui possa fermentare il vino dell’imprevisto.

Occhi_chiusi3.jpg: "Disegna quello che vedi a occhi chiusi", laboratorio per prima elementare, tecnica: carboncino su cartoncino nero
“Disegna quello che vedi a occhi chiusi”, laboratorio per prima elementare, tecnica: carboncino su cartoncino nero

 

Occhi_chiusi3.jpg: "Disegna quello che vedi a occhi chiusi", laboratorio per prima elementare, tecnica: carboncino su cartoncino nero
“Disegna quello che vedi a occhi chiusi”, laboratorio per prima elementare, tecnica: carboncino su cartoncino nero
Occhi_chiusi2.jpg: "Disegna quello che vedi a occhi chiusi", laboratorio per prima elementare, tecnica: carboncino su cartoncino nero
“Disegna quello che vedi a occhi chiusi”, laboratorio per prima elementare, tecnica: carboncino su cartoncino nero

Recensione: “RISONANZA”e “ISTINTO DI RIBELLIONE” dei C.R.P. – se memoria diviene suono

La performance sonora di Gianmarco Caselli con il C.R.P., Collettivo Rivoluzionario Permanente che ha visto Caselli affiancato da Andrea Ciolino, Michele Barsotti, Francesco Ricciu si è tenuta al Congresso di Sezione dell’Associazione Nazionale Partigiani Italiani dove si parla, prima di tutto di cosa significa essere Partigiani oggi.

Gabriele Olivati con la sua riflessione mette in luce il rapporto tra antifascismo, resistenza, patriottismo. Dire che essere partigiani significa essere antifascisti è assolutamente riduttivo. L’antifascismo era la particolare forma che i partigiani hanno assunto in quel preciso momento storico, quando coloro che limitavano la libertà erano i fascisti. Essere partigiani significa anche essere patriottici, ma non certo nel senso di un becero nazionalismo quanto nella determinata volontà di vivere in un Paese libero accanto a tanti altri Paesi ugualmente, profondamente liberi, per poi essere in grado di trovare insieme unità nella libertà, nel rispetto reciproco, nella condivisione, nella pace, nel dialogo, nello scambio.

Essere partigiani significa sapersi proteggere da ciò che oggi minaccia la libertà. 

Quando qualcosa viene posto e immaginato come più importante della stessa democrazia allora c’è una minaccia concreta, reale, tangibile. Olivati continua individuando questa minaccia nelle leggi del mercato globale, nella diffusione dell’idea di essere immersi in un sistema economico che sovrasta, impera, determina, a prescindere, come un ineludibile quanto impersonale diktat.

C.R.P., Lucca, by MARCO PUCCINELLI
C.R.P., Lucca, by Marco Puccinelli, 2016
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Altri interventi pongono l’accento su rischi e possibilità che il nostro nuovo contesto sociale presuppone, aprendo una porta nuova sull’inclusione.  Chi viene a vivere in Italia ha bisogno di sapere cosa ha contraddistinto il nostro passato, quali strenue difese si siano attivate per proteggere una libertà minacciata. La proposta concreta è quella di creare occasioni di scambio e di conoscenza. Una chiave per costruire un terreno di valori condiviso. Conoscere la storia vuol dire conoscere gli uomini e ciò costituisce sempre, per tutti, la possibilità di acquisire nuove prospettive personali e sociali. La nostra storia può essere uno strumento per conoscere la libertà, quella libertà che il terrorismo dilania in chi lo porta avanti e in chi lo subisce.

In questo contesto si è inserita la performance di Gianmarco Caselli con altri 3 musicisti: con due pezzi scritti appositamente e dedicati a Luciano Caselli, “Risonanza” e “Istinto di Ribellione”, fuse insieme in un unico brano davanti a un pubblico che ha visto la partecipazione di tanti giovani e anche di tanti studenti.

La sperimentazione sonora di questi musicisti è in grado di creare immagini vivide di memoria. Messaggi sonori che nell’ascoltatore rendono quegli anni vicini, le emozioni attuali, vissute con partecipazione personale e non più persi nel passato.

C.R.P., Lucca, by Marco Puccinelli, 2016
C.R.P., Lucca, by Marco Puccinelli, 2016

La vita giovane e serena di persone che si sono trovate a dover fronteggiare un nemico indifferente ai loro sogni e ai loro progetti. Atmosfere cupe e gravi di canti armonici e note basse interrompono l’atmosfera creata da flauto e pianoforte. Suoni metallici ritmati come le catene di una schiavitù, di un assoggettamento che si fa minaccia concreta. Metallo anche come moneta. Urla trattenute, dignitoso lamentarsi davanti alla morte e alla fatica trova la sua forza in un “Istinto di Ribellione” che si fa parola annunciata con determinazione. In sottofondo non mancano le atmosfere di vecchie canzoni alla radio inframezzate dagli annunci del Duce e la guerra. Annunci e voci che atterriscono per la loro perentorietà. Tragici, assurdi annunci di guerra. Carte si accartocciano, fogli vengono strappati. Un sospiro finale accanto al suono del metallo ci indica che tutto è passato ma che non dobbiamo abbassare la guardia, mai, il metallo è ancora lì, come catena, moneta, nella sua fredda durezza.

In queste due composizioni la musica classica contemporanea si incontra con atmosfere della ricerca industriale berlinese più sperimentale.

A conclusione, il racconto di Luciano Caselli, partigiano novantacinquenne che racconta in prima persona la sua esperienza.

Link del video:
https://youtu.be/o6OcW3GDjH4

C.R.P., Lucca, by Marco Puccinelli, 2016
C.R.P., Lucca, by Marco Puccinelli, 2016

Chiara: come nasce questa collaborazione con l’ANPI?

Gianmarco: l’ANPI mi ha chiamato per realizzare l’intervista video a Luciano Caselli, che è mio prozio, e che mi aveva  raccontato questa incredibile storia del suo passato del quale siamo tutti molto orgogliosi. A quel punto è nata l’idea di realizzare anche la performance con il C.R.P. Inizialmente era nato “Risonanza”, il brano per pianoforte, oggetti metallici e sospiro, poi, quasi da sé, è nato anche “Istinto di ribellione”, un pezzo più sperimentale, con l’elettronica, il coro e gli oggetti metallici.

Chiara:  la musica e la storia, quale rapporto?

Gianmarco: uno degli obiettivi del C.R.P. è proprio quello di divulgare attraverso la musica eventi storici “scomodi” o semplicemente ricordarli: credo sia importante avvicinare le nuove generazioni alla storia grazie anche alla musica. In questo caso si è unita anche la componente “familiare” di Luciano che ha reso il tutto ancora più affascinante e coinvolgente.

C.R.P., Lucca, by Marco Puccinelli, 2016
C.R.P., Lucca, by Marco Puccinelli, 2016

Chiara: cosa è importante ricordare?

Gianmarco: è importante ricordare che la libertà va conquistata ogni giorno, che non si deve far finta di credere che vada tutto bene in un sistema in cui comunque è fortissimo il nepotismo e il clientelarismo, che esistono altre forme di costrizione, che dittatoriali non sono, ma che sono presenti fortemente nella nostra società politica, lavorativa, sociale in un sistema in cui ai giovani che cercano occupazione, in alcuni casi, si chiede prima che lavoro fa loro padre. Ma si devono ricordare anche storie passate, quelle della gente comune: la storia non è stata fatta solo da coloro di cui leggiamo nei libri,  ma il più delle volte sono state le persone comuni, che con il proprio coraggio e i propri sacrifici hanno fatto la storia, anche se non compaiono nei libri. E non per questo le loro azioni sono state meno importanti, anzi.

Chiara: la libertà è minacciata ormai, lo sappiamo, cosa ne pensi di quanto accaduto ai Musei Capitolini pochi giorni fa?

Gianmarco: ho pensato che fosse una notizia di “Lercio.it”.

C.R.P., Lucca, by Marco Puccinelli, 2016
C.R.P., Lucca, by Marco Puccinelli, 2016

Intervista: STEFANO NOTTOLI “c’è un gatto sopra il tetto che cinguetta col cappello da cowboy”

Il 2016 vogliamo aprirlo in musica.

A fare gradita incursione nella casa di Disegnostorie è il caro Stefano Nottoli, cantautore e pianista toscano.

Innegabilmente ricco di talento, caratterizzato da uno stile personale, molto originale, a tratti onirico, decisamente raffinato. I suoi pezzi accompagnano chi ascolta in un mondo fuori dal tempo, popolato da personaggi surreali, poetici e teatrali. La fantasia si accende e la voglia di ballare si fa irrefrenabile.

Cantastorie, cantautore, musicista, attore, performer, docente di scienze presso le scuole superiori.

Un passato di diverse esperienze musicali, attraversando generi e stili diversi e arricchendo la sua gamma espressiva con sfumature ben rintracciabili nel suo lavoro.

Teneva i primi concerti in casa, lo strumento erano i coperchi delle pentole della mamma, la location la cucina. La platea era esigua e l’impianto audio non ancora all’altezza, così, solo i familiari potevano assistervi. Per nostra fortuna, a 16 anni fondava la sua prima band. Successivamente ha cambiato più volte formazione artistica attingendo alle più diverse tradizioni musicali italiane e internazionali, contemporanee e non.

Ha suonato in una band dal nome Guerrilla farming,  livornese, di ispirazioneReggae, con la quale, nel 2009, ha potuto creare il suo primo lavoro Naturale con la One step records.

Con il regista Stefano Nicoli, ha scritto colonne sonore e interventi musicali per diversi cortometraggi,  come Lucca the north-west corner of Tuscany.

 La sua discografia:

Ritagli di tempo – 2012 – Pinolaupitu Production
Lo chiamavano Parafango – 2015 – Pinolaupitu Production

Preziose informazioni sui suoi gustosi concerti potrete trovarle su

http://www.stefanonottoli.com/

Premio Magnino - 2015
Premio Magnino – 2015

Chiara: ascoltando questo tuo secondo album “Lo chiamavano Parafango” viene naturale pensare al teatro canzone, si può?

Stefano: Gaber l’ho conosciuto di più con il tempo, ho sempre avuto il fascino del teatro e questa volta ho voluto unire le due cose: c’è una parte recitata e una cantata. Ho un maestro di canto che lavora molto anche con gli attori.

Ho sempre suonato il pianoforte ma poi, a partire dal 2010 ho avuto tanta voglia di cantare e ho iniziato a farlo. Mi sono trovato davanti ad un bivio, ho capito che la strade davanti a me erano due: “o smetto di suonare o inizio a cantare”, mi son detto. Ho ripensato a che cosa mi piacesse davvero fare fin da bambino e l’ho fatto, così ho iniziato a cantare e mi sono reso conto che è ciò che voglio.

Ho avuto anche la fortuna di incontrare un maestro di canto con cui lavorare in modo nuovo. Non si tratta di esercitarsi direttamente sulla voce ma di preparare il corpo e la mente alla voce.  Creare le condizioni psicofisiche affinché la voce possa esprimersi al meglio. Così, dopo circa due anni, i benefici che questo lavoro mi stava dando sono diventati tangibili.

Si tratta del “Metodo Funzionale” che si avvale anche di momenti di meditazione e visualizzazione.

Chiara: sono entrata nel tuo sito ed è come entrare a teatro.

Stefano: il sito è curato dal mio batterista, è in realtà molto semplice, come la copertina di “Lo chiamavano Parafango”, che è curata sempre dalla stessa persona. Sono molto contento del risultato.

La teatralità, sì, mi appartiene…Una sera, suonando in un locale di amici, a Lucca, mi è stato detto di somigliare a Manolo Strimpelli, artista lucchese che ha lavorato anche con Capossela. Un grande complimento.

Mi piacerebbe lavorare in un teatro.

Posso dire di essere piuttosto egocentrico, passo da serate dove preferirei soltanto essere ascoltato a altre dove, al contrario, amo fare “caciara” divertendomi a coinvolgere il pubblico in tutti i modi.

Apro una parentesi riguardo al Lucca Summer Festival che, a volte, è molto criticato dalla maggior parte degli artisti lucchesi. Perché invece di limitarsi a criticare cosa non va, non iniziare a fare un Festival degli artisti lucchesi che possa avviarsi e poter, poi, camminare da solo? Se funzionerà, allora sì, in quel caso potremmo pensare anche a future collaborazioni con gli eventi più affermati come il Summer.

E’ importante fare qualcosa di concreto da offrire, qualcosa che funzioni e che possa essere una risorsa vera e non solo una “passerella” stile “next please”, dove ognuno ha solo 5 minuti per poi doversi sbrigare a lasciare spazio ad altri.

L’alternativa alla critica inutile è partire con progetti concreti… proposte diverse che mostrino di funzionare. Risorsa per la città e per il futuro. Qualcosa che possa crescere grazie al riscontro del pubblico. Se non c’è questo step iniziale da parte degli artisti, è difficile realizzare qualcosa visto che, come si sa, nessuno ti viene a cercare.

Premio Magnino - 2015
Premio Magnino – 2015

C: fare rete è fondamentale.

S: sì ci sono molti esempi… anche nella musica, pensiamo a Gazzè Silvestri e Fabi. Hanno in comune gli esordi della loro carriera a Roma, poi si sono dedicati ognuno ai propri percorsi per poi trovarsi di nuovo insieme.  Suonare con qualcuno con cui condividi un percorso comune e la stessa voglia di creare può essere una valida risorsa per crescere artisticamente. Una risorsa che dà qualcosa in più e di complementare allo studio tradizionale.

Chiara: per te è stato così?

Stefano: mi capitava quando suonavo nelle jam session. Tornavo a casa davvero arricchito. Erano serate dove ognuno di noi aveva la sua visione della musica da regalare agli altri, interpretazioni inedite di pezzi noti… vivere questo tipo di esperienza era un po’ come aver seguito dieci lezioni tutte insieme.

Lo studio è importante, il lavoro autonomo individuale pure, ma il confronto è fondamentale, ti metti in discussione, ti esponi e puoi attingere a risorse nuove.

Chiara: come sei entrato nel mondo della musica?

Stefano: credo di esserci sempre stato. Mio nonno suonava nella banda paesana, mio fratello aveva amici musicisti così  ho potuto sentire il richiamo di questo mondo e la forte voglia di viverlo in prima persona. Avevo una chitarrina e potevo divertirmi tanto provando a suonarla. Andavo a vedere la banda paesana dove si esibiva mio nonno e poi, una volta a casa, eccomi lì a marciare intorno al tavolo della cucina con i coperchietti delle pentole.

Negli anni ‘80 i primi video di Videomusic: mi avevano stregato, improvvisavo esecuzioni, allestivo “palchi” e immaginavo concerti di diecimila persone nella campagna dei dintorni. I giochi in tema di musica erano per me i preferiti e occupavano le mie giornate di bambino. Mio fratello mi aveva insegnato a suonare il flauto prima che andassi a scuola e quando arrivai in classe mi trovai avvantaggiato.

Festa del Vino - Montecarlo, Lucca - 2015
Festa del Vino – Montecarlo, Lucca – 2015

Su consiglio del mio professore di musica iniziai a prendere lezioni. Volevo fare il chitarrista ma nel mio piccolo paese,  Santa Maria a Colle, non c’era moltissima scelta… Per fortuna abitava lì vicino una maestra di pianoforte. Per praticità scelsi di imparare a suonare il piano ma con il progetto, in seguito, di realizzare il sogno della chitarra.

In realtà mi sono innamorato del piano e tuttora vi sono artisticamente molto legato.

Fin dall’adolescenza scrivo canzoni, avevo raccolto tanti testi, poi, il fiume vicino a casa mia esondò nel Natale 2009 e distrusse tutte quelle mie creazioni.

Ne sono ancora così dispiaciuto. Anche se molte di quelle canzoni ormai non sarebbero state forse  più proponibili erano comunque parti della mia storia, ricordi unici, irripetibili.

Ne ricordo in particolare ancora una: alle medie, nella lezione di italiano qualcuno lesse “a Silvia” uno dei capolavori di Giacomo Leopardi.  Io ne fui così colpito che appena arrivai a casa scrissi una canzone su quella poesia.

Non mi ricordo più le parole ma ho memoria soltanto che era scritta in rosso e sono sicuro che oggi avrei potuto riproporla. Purtroppo, nel 2009 non c’era l’abitudine di salvare tutto sul pc.

Chiara: scrivere testi non è come scrivere un diario o un racconto, si tratta di una competenza particolare.

Stefano: sì, è così, a volte vengono proposti corsi che promettono di insegnare a scrivere canzoni. Io non ne sono mai stato attratto, non certo per presunzione, bensì per paura di restare legato a degli schemi, temo di diventare troppo tecnico.

Il senso artistico non ha molto a che vedere con la tecnica.

I cantastorie, come nel passato, non sono persone di studio, ma hanno avuto la capacità di strutturare una loro naturale pratica, legata a un ritmo tutto personale. Amo sperimentare, seguire una mia evoluzione naturale.

Chiara: questa passione per la musica è naturale, nasce con noi o prende forma dalle nostre esperienze prima di bambini poi di uomini? Per te la prima ipotesi sembra più vera.

Stefano: ognuno può parlare per sé. Nel mio caso, sì, questa passione assume i connotati di un bisogno fisiologico… impellente come altri più prosaici!

Qualcosa che mi contraddistingue da sempre.

Un bisogno che scaturisce in modo naturale, non lo si può forzare, si costruisce a poco a poco, ha i suoi tempi.

Un albero che cresce segue il suo ritmo, le sue stagioni, se lo si vuole forzare non ne scaturisce niente o al massimo qualcosa di artificiale. Per me la musica è un bisogno più o meno forte a seconda dei momenti. Sono impulsivo e irruento penso una cosa e la vorrei fare subito  ma paradossalmente, in questo caso no.

Stefano Nottoli a Radioradicchio-  2015
Stefano Nottoli a Radioradicchio- 2015

Sono contento quando mi accorgo di aver creato qualcosa che non sta in una dimensione del tutto razionale. Quando chi mi ascolta apprezza quello che faccio perché è capace di evocare qualcosa che non si riesce neanche a spiegare. Pezzi che  “arrivano” e piacciono…un bambino che balla sulle mie canzoni, per me, è una vittoria! Significa che si è arrivati a una dimensione che non è razionale! Mio figlio di tre anni che vuole ascoltare “Il gatto Jack” ottomila volte mi fa contento perché vuol dire che sente in quella canzone qualcosa che va oltre le parole e la storia, qualcosa di magico. Tutti i bambini sanno coglierlo molto bene. Invece nei “talent” tutto è molto studiato. Con tutto il rispetto per i diversi percorsi che ognuno di noi può compiere, spesso, i “talent” sono un po’ fuorvianti, danno una visione molto lontana dalla realtà della musica e del lavoro artistico. Senza contare che tanti cantanti che vi partecipano rischiano di essere poi ricordati dal grande pubblico, per il resto della loro vita, solo perché sono arrivato secondi a “X Factor” e non per un loro particolare talento o per la specificità del loro stile.

Chiara: oggi ci si può avvicinare alla musica per tante ragioni: grazie a un maestro, a un amico, a internet o chissà.  Da cosa partiresti per insegnare la musica a un bambino?

Stefano: c’è un film che mi ha colpito molto, “Ray”, ispirato a Ray Charles e alla sua storia incredibile. All’inizio del film lui è già cieco e conosce un signore che sa suonare il piano. Quest’uomo coinvolge Ray bambino chiedendogli di suonare come fosse un parlare, proprio come si fa con la lingua parlata dove ad un suono si risponde con un altro suono. Questo è il modo in cui ha imparato Ray Charles. Credo che sia così con la musica.  Un linguaggio come quello delle parole: nella nostra vita seguiamo questo metodo, si parla subito senza prima aver imparato la grammatica, così credo sia meglio imparare a suonare, prima possibile, prima della teoria. Questo si afferma anche con la cosiddetta Audiation del Metodo Gordon che fa parte nella Music Learning Theory.

Mio figlio Riccardo e io a volte facciamo come in quel film.

Il pianoforte, a casa, è sempre aperto. Mi siedo davanti al piano e poso Riccardo sulle ginocchia, poi, inizio a suonare e lui batte le risposte ai miei “discorsi” musicali.  Si parla,  si comunica tra padre e figlio in un mondo di note. Nel futuro forse potrà scegliere di studiare musica in modo più sistematico o forse farà il calciatore. (ride)

Chiara: mentre parliamo la nostra voce comunica con il suo ritmo e la sua intonazione e non solo con le parole.

Stefano: certi dialetti hanno una musicalità più pronunciata di altri.

In passato tutti cantavano molto di più, oggi è diventata un’attività solo degli artisti.  Io non ho sempre cantato. Lo facevo in un gruppo dai 16 ai 18 anni poi ho smesso per un problema di salute e non ho più cantato fino al mio primo disco: avevo deciso di suonare e basta. Ero molto meno intonato di adesso.  Ho lavorato molto in questo senso e con tanta fatica posso dire di aver recuperato. Ho ancora molte “finezze” da acquisire e molto orecchio da raffinare ulteriormente, ma un certo miglioramento rispetto al passato, con tanta fatica e lungo lavoro sull’intonazione, c’è stato.

Chiara: ci sono state persone che hanno influito più di altre sulla tua crescita e ispirazione musicale?

Stefano: ultimamente, il lavoro di Bobo Rondelli o Vinicio Capossela mi ha certamente ispirato moltissimo. Sono molti, per me, gli ispiratori, tanti quante sono state le fasi del mio percorso.

Ho ascoltato tanta musica.

Un tempo, tanti anni fa, verso i miei vent’anni, ci sono stati i Subsonica e con la mia band facevamo la loro musica. Di certo, da quando ho deciso di cantare come solista,  Capossela mi ha ispirato molto.

Chiara: questa tua trasformazione nel tempo è evidente anche dai tuoi due album. Si può riscontrare molta differenza di stile tra il primo e il secondo.

Stefano: il mio primo lavoro “Ritagli di tempo” nasce dalla voglia di rompere con il passato, da una ispirazione ad un sound molto acustico, ci sono fisarmoniche e violini. Si possono riconoscere tracce del lavoro di Mannarino che apprezzo particolarmente per la sua scrittura dei testi e influenze di Capossela.

Il secondo album è nato da una voglia di rock che doveva essere un recupero di esperienze e passioni passate. Così, in “Lo chiamavano Parafango”, si sono potute sviluppare sonorità che richiamano i Doors ma anche ritmi raggae forse più nascosti, ci sono chitarre elettriche e organetti. La canzone “Sotto le lenzuola” inizia con un levare che può essere ricondotto al reggae e finisce con risonanze acustiche che riportano la memoria ai Doors.

E’ stato molto liberatorio, una volta raccolto il passato si è più liberi per il futuro.

Chiara: per quanto riguarda la canzone “Una giornata ordinaria”, c’è una bellissima voce femminile che interrompe molto l’andamento complessivo dell’album.

Stefano: si tratta di Elisabetta Maulo dei Betta Blues Society.  Canta la canzone creando un’ atmosfera molto diversa rispetto a quelle precedenti. Mi sono chiesto, a volte, se sia stata la scelta più giusta ma era ciò che sentivamo in quel momento sotto la spinta di diversi stimoli. L’album, già dal titolo, “Ritagli di tempo” svela la sua natura: nasce da pezzi nati in momenti diversi e sotto l’impulso di differenti suggestioni artistiche.

Per esempio “Paris” prende forma da incontri curiosi avvenuti durante un soggiorno parigino in casa di amici.

Chiara: vari incontri. Ma Leo esiste? I paesini intorno a Lucca sono popolati da personaggi che potrebbero nascondere storie come la sua.

Stefano: Leo è il personaggio protagonista, colui che tutti chiamano Parafango. Sono cresciuto vicino al manicomio di Maggiano. Lucca, la provincia, e tanti altri luoghi, nascondono personaggi simili. Ne ho visti svariati. Leo nasce un po’ da tutti quei personaggi a limite del surreale che possiamo incontrare in certi luoghi.

La storia di Leo nasce in un periodo in cui stavo scrivendo molto e raccontavo storie. Mi chiesero di scrivere un pezzo sulla bicicletta perché in quel momento passava il campionato europeo di ciclismo da Lucca. C’erano vari progetti in programma per farne un cd.

Tuttavia il pezzo restò lì per un bel po’ di tempo e non venne utilizzato per quello scopo. Continuai a scrivere altre storie, tutte parlavano di un personaggio e poi c’era “Che vuoi che sia”, dove descrivo la mia idea della morte. Ho creduto di poter raccogliere queste storie come fossero episodi diversi della vita di un unico personaggio e “Che vuoi che sia” come conclusione. Così ho fatto ed è nato l’album.

Leo esiste e non esiste: una volta, a cena, mio padre e mio nonno raccontavano storie dei loro tempi e proprio a quelle si riferisce “Alcolemico amore”: un loro vecchio amico dal fisico non troppo ordinario e le sue galanti avventure.

Chiara: avventure finché Leo non s’imbatte nel vero amore. Ecco Brunilde.

Stefano: mi sono ispirato al film Django Unchained di Tarantino. Brunilde è un pezzo che nasce da lì. Parla del protagonista del film, “sembra follia ma c’è magia”, è quella storia fino all’esplosione finale dove Django libera la sua compagna Broomhilda.

Chiara: la cultura musicale per un bambino che cresce in cosa può consistere?

Stefano: dobbiamo definire il campo: quale musica e quale bambino, in che contesto?

In termini generali, la musica è necessaria fin dalla gestazione, sempre più studi lo dimostrano. In seguito è meglio imparare a conoscere più musica possibile, avere più stimoli così da permettere ai bambini di scegliere, in seguito, su quali generi focalizzarsi.

La musica educa e di certo ce ne vorrebbe di più.

Gli stimoli da fornire, già a partire dalla scuola, più sono e meglio è.

Non possono essere limitati al “flautino”, come troppo spesso accade.

Credo soprattutto che sia necessaria una maggiore educazione all’ascolto, non è il problema di trovare una scuola di musica o di imparare a studiare uno strumento: le scuole di musica sono tante e non ci sono difficoltà in questo senso. Manca una educazione all’ascolto. Indispensabile come persone, come futuri ascoltatori e come musicisti.

Ho avuto la fortuna di ascoltare molta musica grazie a mio fratello che indirettamente, senza saperlo, ha influito moltissimo sulla mia formazione musicale, aveva 5 anni più di me e anche solo giocando, mi ha, involontariamente, ispirato e introdotto alla musica.

Stefano Nottoli - 2015
Stefano Nottoli – 2015

Chiara: quando scrivi un testo che fai?

Stefano: non ho uno schema ben preciso, ho paura degli schemi, non voglio sentirmi legato.

Arrivano generalmente insieme, testo e musica, ma, a volte, invece, no,  per esempio,  “Tango del mattino” nasce prima per la musica poi come  testo.

Quella canzone si riferisce alla storia dei nonni della mia compagna: lui di famiglia di modeste origini aveva potuto trovare scampo dalla guerra suonando in una agiata famiglia.

La sua amata, invece era ricca e nobile. Una storia osteggiata, di cui ritraggo una scena:  una passeggiata romantica che rappresenta la loro rivincita davanti a tutti coloro che li hanno derisi e non credevano nella forza del loro sentimento. Ultimamente scrivo molto buttando giù i testi e poi musicandoli dopo: questo sistema mi  fa sentire più libero.

Intervista: IGNAZIO FRESU “L’essere è divenire”

Intervista a Ignazio Fresu: “L’essere è divenire”

 

Il sabato del villaggio Ignazio Fresu- Il Sabato del Villaggio

“Dunque da tutto ciò si deduce […] che nessuna cosa di per sé è una, ma sempre nasce rispetto ad un’altra; e che il verbo «essere» va soppresso dappertutto, benché noi molte volte e anche poco fa fummo costretti a servircene dall’abitudine e dalla mancanza di scienza. Invece, come dice il discorso dei sapienti, è necessario non concedere nulla, né di uno né di me, né questo né quello né qualsiasi altro nome che stia fermo, ma è necessario dire secondo natura che le cose nascono, vengono fatte, muoiono, si alterano; perché quando uno con il discorso mette qualcosa ferma, facendo questo può essere facilmente rimproverato”. (Platone, Teeteto, 155 a3 – 157 b8).

Questo passo ci introduce al tema del divenire e della conoscenza delle cose che divengono e che, perciò, trasformandosi, ci invitano a rivedere la nostra conoscenza su di esse che non può essere ferma, stabile, data, costituita una volta per tutte, ma necessita di divenire insieme alle cose stesse, di trasformarsi con loro.

La contraddizione  è solo apparente. Siamo immersi in uno stabile divenire e ne siamo parte, “in fieri” noi stessi. E’ l’unità del molteplice, affrontata da tutte le tradizioni filosofiche del mondo e tema caro alle riflessioni spirituali.

La nostra conoscenza delle cose è sottoposta all’inganno dei sensi, la realtà spesso non è quella che appare, lo si scopre avvicinandoci, sperimentando, provando. Di tutto ciò si occupa Ignazio Fresu nel suo donarci un invito alla scoperta, alla riflessione avventurosa sulla conoscenza delle cose.

Cenere IIgnazio Fresu-Cenere

Fresu, attraverso le sue opere, apre lo spettatore ad una realtà che sì, può anche essere ciò che appare, ma è anche un molto altro tutto da scoprire lungo un percorso che è possibile compiere semplicemente grazie alla vera osservazione, fatta non solo di sguardo dell’occhio ma anche di quello sguardo che il pensiero sa lanciare. La struttura delle opere di Fresu non vuole ingannare, non vuole essere “il genio maligno” di Cartesio ma un invito a sfogliare i vari strati dell’essere senza dualismo, senza opposizione per integrare e accogliere apparenza e sostanza. Non è la realtà ad ingannarci bensì il nostro sguardo superficiale.

Di Fresu,  Sara Paradisi su Wikipedia scrive:

“Le sue opere sono basate sul contrasto tra realtà ed apparenza, sull’inganno generato dallo sguardo frettoloso. Ogni cosa è esattamente l’opposto di ciò che appare e nessuno sembra accorgersene. Il metallo non è metallo, ma spesso cartone o polistirolo travestito da metallo. L’usura e l’ossidazione dei materiali sono soltanto un abile gioco di interventi manuali. La leggerezza è travestita da pesantezza. Gli equilibri precari sono calibrate composizioni statiche. L’acqua viene riprodotta attraverso materiali tecnologici come il plexiglas e il vetro. Giocare con i materiali e con il concetto di apparenza è uno dei modi di Ignazio Fresu per collegarsi alle tematiche del divenire, della trasformazione dell’uomo e delle cose operata dallo scorrere del tempo così come al concetto della bellezza precaria ed effimera”.

Il sabato del villaggio IIIgnazio Fresu-Il Sabato del Villaggio

Ignazio Fresu invita ad una osservazione fondata sul pensiero, sull’esperienza carnale dell’opera grazie all’interazione dello spettatore, e soprattutto sulla consapevolezza del divenire della vita.

Abbiamo chiesto a Fresu di aiutarci a riflettere sul mondo dell’infanzia nel suo rapporto con l’arte. Il mondo in cui viviamo può ingannare facendo apparire le cose solo per ciò che non sono.  Depista costantemente l’attenzione verso un altrove inafferrabile. Chimere che si spostano  nel momento in cui tentiamo di raggiungerle e in questo rincorrerle si riduce sempre di più la nostra capacità di cogliere il tempo presente con tutta la sua pienezza.

I bambini, gli adolescenti, tutti necessitiamo di rafforzare il nostro contatto con l’esserci e con la sostanza della realtà.

Cenere II Ignazio Fresu-Cenere

Prima di leggere il punto di vista che, gentilmente, l’artista ha voluto donarci, è utile rileggere questo scritto di Seneca, tratto da “Il tempo”.

“I giorni migliori fuggono, non c’è dubbio,
se ci si lascia travolgere da faccende
di ben poca importanza.
Così la vecchiaia sorprende gli uomini quando,
nello spirito, non sono ancora cresciuti,
e li coglie impreparati e inermi;
non l’avevano previsto infatti;
e ci si trovano dentro da un momento all’altro,
senza aspettarselo: non si rendevano conto
che la vecchiaia si avvicina un po’ tutti i giorni.
Succede anche in viaggio: chi si lascia distrarre
da una piacevole conversazione o dalla lettura di
un libro o da un pensiero inesistente
si accorge di essere già arrivato prima ancora di
rendersi conto che si sta avvicinando;
così pure questo viaggio della vita,
ininterrotto e veloce, che noi facciamo sempre
con lo stesso passo da svegli e nel sonno,
a chi è sempre affaccendato
si manifesta solo al suo termine”.

Cenere IIIIgnazio Fresu-Cenere

Per essere aggiornati sulle prossime installazioni e per approfondire la conoscenza di questo straordinario artista, le cui opere affrontano temi filosofici e spirituali di ampio respiro, rimandiamo al suo sito personale:

http://ignaziofresu.blogspot.it

http://ignaziofresu.blogspot.it/p/opere-works.html

https://www.facebook.com/profile.php?id=1111683482&fref=ts

https://www.facebook.com/pages/Ignazio-Fresu-visual-artist/51939967031

Cenere IVIgnazio Fresu-Cenere

 

Chiara: ho avuto la fortuna di conoscerti attraverso alcune delle tue installazioni. Come si è delineata in te la scelta di esprimerti in questo modo, anziché attraverso altre forme artistiche?

Ignazio: l’installazione come forma artistica si è prepotentemente imposta nel mio percorso artistico all’età di 18 anni durante il primo anno dell’Accademia. Maturai rapidamente la consapevolezza che le forme espressive basate sull’immagine bidimensionale come la pittura e la fotografia, così come anche quella tridimensionale della scultura, fossero insufficienti a  rendere l’idea della forma espressiva che intendevo realizzare.  Neppure la performance ed il video che proprio in quegli anni stava prendendo le mosse attraverso il videotape, seppure da me inizialmente utilizzate, non mi soddisfacevano in quanto implicano un tempo prestabilito e determinato, dal quale le altre forme d’arte visiva sono svincolate. Una sostanziale libertà di fruizione che solo l’arte visiva e l’architettura consentono. E’ proprio questa vicinanza tra arte visiva e architettura che mi hanno portato a scegliere l’installazione come forma d’arte preminente per approdare alla quarta dimensione dove lo spazio e il tempo sono sensorialmente tangibili e il fruitore interagisce con l’opera fino a diventarne parte.

Il sabato del villaggio III

Ignazio Fresu-Il Sabato del Villaggio

il sabato del villaggio IV

Ignazio Fresu-Il Sabato del Villaggio

Chiara: come vivevi la tua dimensione artistica quando eri  bambino e come la conciliavi con gli obblighi scolastici?

Ignazio: sin dalla primissima infanzia il mio gioco preferito consisteva nel ritagliare, incollare, disegnare e colorare. Questo era per me naturale anche se vedevo che i miei familiari si stupivano di questo mio comportamento che poi in età scolare mi distraeva moltissimo dagli impegni scolastici causando preoccupazione ai miei genitori. Il disegno che durante la scuola elementare accompagnava sempre tutti i compiti, occupava di gran lunga di più il mio interesse.

oggetti smarriti

Ignazio Fresu-Oggetti Smarriti

Chiara: hai mai fatto o pensato di fare un’opera dedicata ai bambini?

In tutti i miei  lavori ricerco una dimensione di fruizione più ampia possibile, sia da un punto di vista formale che dei contenuti. La prerogativa che considero più importate è quella di essere in grado di destare interesse sia nei bambini che negli adulti, sia nelle persone al di fuori dalle tematiche dell’arte, che in quelle più addentro. In questo senso tutte le mie opere sono dedicate anche ai bambini, alcune però destano in loro maggiore curiosità come ad esempio “Il sabato del villaggio” realizzata con i giocattoli, “Memento” con i banchi di scuola, “Cenere” con una moltitudine di oggetti e fotografie o “Nel pensier mi fingo” realizzata con scatole piene d’acqua.

Cenere VIgnazio Fresu-Cenere

Ultima CenaIgnazio Fresu-Ultima Cena

Chiara: quali sono stati gli artisti che hanno ispirato di più il tuo sviluppo personale?

Ignazio: sono stati gli artisti del movimento dell’Arte Povera. Mi sono formato attraverso le loro opere oltre che sulla Minimal Art e la Land Art. Ma mi sento profondamente legato a  tutta l’arte da quella preistorica, sino all’arte più contemporanea, quella di questi giorni. C’è un misterioso e invisibile filo conduttore che tiene insieme tutto.

Cenere VIIgnazio Fresu-Cenere

Chiara: come vedi il rapporto arte ed educazione pensando ai bambini di oggi?

Ignazio: grazie alle moderne didattiche, alle applicazioni pedagogiche ed in generale alla considerazione che si ha dei bambini oggi, questi godono di una libertà espressiva e formale che fino a qualche decennio fa era assolutamente inconcepibile. La messa al bando degli stereotipi: la casetta con il tetto rosso, l’albero con la palla verde, il sole con i raggi, eccetera  e le costrizioni formali, consentono un rapporto più diretto e immediato con l’arte che diventa già dai primi anni di vita un importante elemento di stimolo e di crescita sia intellettuale che spirituale.

 

quel che resta
Ignazio Fresu-Quel che resta

 

 

 

 

Intervista: CARLO PEPI “La verità del disegno”

Proseguiamo il viaggio incontrando Carlo Pepi, notissimo critico d’arte, che ringraziamo sentitamente per aver risposto alle nostre domande con preziosa e sincera passione e con l’entusiasmo contagioso che solo il profondo amore per il proprio lavoro possono consentire.

Un esperto in campo artistico, un professionista appassionato che negli ultimi quarant’anni ha offerto il suo contributo con generosità e impegno da più parti, divendo notissimo grazie all’episodio dei “falsi” di Amedeo Modigliani rinvenuti nei fossi livornesi nei primi anni ottanta.

In quell’occasione, con coraggio, fu l’unico a sostenere dall’inizio che quelle opere erano false, anche se la maggior parte dei critici del tempo, compresi nomi come Giulio Argan e Enzo Carli,  sostenevano il contrario.

Aveva ragione lui e da lì non ha mai smesso di sostenere le proprie opinioni anche se sono controconcorrente, anche se non sono condivise e vanno in direzione ostinata e contraria a quella dei più. Anche in seguito, quando sono state ritrovate le vere sculture di Amedeo Modigliani e quegli stessi esperti che avevano giudicato veri i falsi reputarono false ora le opere autentiche, Carlo Pepi le riconobbe subito come vere, a ragione. Per questo venne a subire un processo da cui uscì vincitore contro, tra gli altri, le Soprintendenze di Pisa e Roma e il Comitato degli esperti del Ministero.

“Lui di sé dice che ha un occhio straordinario, e difatti ce l’ha questo dono, come nessuno, ma io ritengo che codesta fisicità visuale sia riduttiva parlando di lui. Carlo vive l’artista che ama con un’empatia prodigiosa”. (Giuseppe Recchia, Nino Filastò, Carlo Pepi, il don Chisciotte dell’arte, Shakespeare and Company, Brescia, 2009, pp. 35).

Dice di sè il critico d’arte:

“Lo vedo dal segno se un’opera è quella giusta. L’opera falsa non vibra, suona sordamente come una campana stonata. Non c’è niente da fare, una campana quando è rotta, emana sgradevoli suoni!”
(Giuseppe Recchia, Nino Filastò, Carlo Pepi, il don Chisciotte dell’arte, Shakespeare and Company, Brescia, 2009, pp. 63).

Grazie alla sua feconda attività a tutela dell’arte, e’ stato invitato dal critico americano James Beck a far parte dell’Associazione Internazionale ArtWatch, (http://artwatchinternational.org/) per la tutela delle opere d’Arte ed è inoltre, stato nominato Direttore della Sezione falsi e contraffazioni.

Carlo Pepi è stato fondatore dell’Istituzione Casa Natale Modigliani, creandone un centro studi dedicato all’artista scomparso. Fece parte degli Archivi Legali Modigliani, dimettendosi nel 1990 e lasciando la Casa Natale di Modigliani non trovandosi in linea con alcune scelte degli altri membri.

La sua originalissima modalità di rapportarsi all’arte e di concepire il collezionismo ne fa un esempio vivente, più unico che raro di come anche oggi, nonostante tutto, si possa ancora amare qualcosa in modo disinteressato.

Sì perchè Carlo Pepi non ha con l’arte un rapporto da mercante, ma ne ha un rispetto come di cosa che ha un valore in sè, in quanto fine e non come mezzo.

Qualcuno lo ha definito “Il Don Chisciotte dell’arte” (Giuseppe Recchia, Nino Filastò, Carlo Pepi, il don Chisciotte dell’arte, Shakespeare and Company, Brescia, 2009): “Carlo Pepi è davvero un Don Chischiotte dell’arte, un personaggio unico e qualsi indescrivibile, a metà strada dalla realtà e dalla fantascienza, che sembra uscito dalla penna di uno scrittore di favole. Eppure così non è”.

La sua splendida villa vede migliaia di opere ospitate come si accoglierebbero amici cari a una festa.

La festa della bellezza, del vagare tra mondi, visioni, idee, paesaggi interiori e esteriori, sguardi, mani, vesti, buoi, terra e piante di colori e pennellate, che ti circondano da ogni dove emergendo dalle loro tele.

Vi assicuro che attraversare la collezione Pepi è davvero un’esperienza fortissima dal punto di vista emotivo, è un viaggio dei sensi e del cuore che stordisce quel tanto da far sentire pellegrini liberi in una vastità senza confini.

Ha collezionato circa 20.000 opere di oltre 2.000 artisti, nella villa attualmente di sua proprietà e appartenuta in passato al suocero di Giorgio Kienerk.

Le opere, come persone importanti cui si dà ospitalità, si attardano sornione sui letti, sui tavoli, spuntano furtive in bagno e poi le trovi vicine alle finestre a guardare fuori visioni di verdi campagne toscane e diresti che non siamo, qui nel 2015 ma che forse l’oggi, lì tra quelle tele e quelle campagne può essere un altrove, un punto dove converge il tempo in un presente densissimo.

Per avere maggiori informazioni sulle attività di Carlo Pepi rinvio al suo sito personale dove è possibile prenotare anche visite guidate nella sua casa museo ad una collezione senza uguali.

Per saperne di più sull’opera di Pepi e avere l’elenco delle sue svariate pubblicazioni si veda:

http://testedimodigliani.xoom.it/carlo_pepi.html

www.casamuseopepi.eu,

www.collezionecarlopepiarte.it

https://carlopepi.wordpress.com/

http://www.iscomar-spp.netsons.org/123/comenius08/index.php?mod=01_Pittura/Carlo%20Pepi

Carlo Pepi nella sua casa museo, tra alcune delle opere raccolte nella sua collezione
Carlo Pepi nella sua casa museo, tra alcune delle opere raccolte nella sua collezione

1) Chiara: quale è stato il suo rapporto con l’arte da bambino, come si esprimeva, quali forme prendeva?

Carlo Pepi: abitavo in Val d’Orcia e con un mio amico trascorrevamo del tempo a osservare le bellezze del paesaggio. Il paesaggio è collegato all’arte, osservarlo indica una predisposizione naturale all’arte.

Con un mio amico, a primavera, mentre tutti gli altri nostri coetanei giocavano a pallone, noi  osservavamo il paesaggio da dietro al Duomo di Pienza: un’attitudine che in entrambi si esprimeva in questo modo. Era un qualcosa di innato, naturale, nessuno ci chiedeva di farlo.

Credo ci sia un forte collegamento tra paesaggio, bellezze del paese antico e amore per l’arte.

Anche il mio amico, infatti, si è poi dedicato all’arte occupandosi del Teatro Povero di Monticchiello per quanto riguarda i testi e la regia.

Mentre gli altri giocavano a pallone noi, da dietro al Duomo di Pienza, preferivamo contemplare il paesaggio.

C’è un grande collegamento fra il paesaggio naturale, il paesaggio del luogo dove si vive e lo sviluppo della propria predisposizione artistica.  Si tratta di una predisposizione naturale all’arte e al bello, c’è chi la possiede in modo maggiore rispetto ad altri, ma il luogo dove si vive può essere molto importante per concretizzarla. In Val d’Orcia eravamo circondati dalle Madonne Fiorentine, molte se ne potevano trovare  a Pienza, ma non mi interessavano molto all’epoca, tuttavia erano lì, intorno a noi. Sentivamo molto quel fascino dell’antico grazie a questo istinto così forte e presente in noi che poi si è concretizzato in modi diversi.

Pienza, paesaggio intorno al Duomo.
Pienza, paesaggio intorno al Duomo.


2) Chiara: cosa lo ha spinto a portare avanti questa sua attività di collezionista?

Carlo Pepi: dal capire che potevo avere la possibilità di acquistare e diventare proprietario di quelle opere che tanto apprezzavo, per poterne disporre, vederle intorno a me, averle in casa, vicine.

Mosso dall’istinto, dal piacere.

Quando sono venuto a Crespina sono sempre stato un ragazzo curioso, mi piaceva parlare con gli anziani per reperire le notizie del passato e dei personaggi del passato.

Venni a sapere che una certa anziana di nome Betsabea era stata la governante dei noti pittori Macchiaioli, i fratelli Tommasi, lei era parente di Rita Cheli che gestiva un tabacchi nella piazza di Crespina. Io allora me ne interessai tantissimo e chiedevo informazioni su di loro, sulla loro vita.

Un altro anziano, Gigino il Sarto, disse che suo padre era stato il giardiniere del pittore Augusto Rey.

Da lui seppi che Rey era parente dei fratelli Tommasi, aveva sposato uno sorella dei Tommasi.

Allora mi raccontò che un giorno, il Rey pittore, passava nelle sue terre, a Gramugnana di Lari, dove molti operai coltivavano la terra lavorando ad una vigna nuova. Il Rey, in calesse, incuriosito dalle loro attività, chiese loro cosa stessero facendo.

Loro ingenuamente, non sapendo con chi, in realtà, stessero parlando, (perché abituati a trattare con suo fratello), gli risposero che stavano facendo dei lavori in attesa di grandi rinnovamenti che dovevano seguire l’arrivo di una imminente, cospicua eredità.

Il Rey capì che stavano aspettando la sua morte, e che speravano arrivasse presto. Capì che si auguravano la sua morte e infastidito, amareggiato e deluso, non lasciò nulla al fratello che gestiva quei contadini ma in seguito a quell’episodio decise di devolvere tutta l’eredità alla Casa di Riposo di Livorno.

La Casa di Riposo Giovanni Pascoli di Livorno ha, infatti, ricevuto in eredità da Augusto tutti i quadri di Villa Rey anche la Villa Rey stessa di Bugallo che poi venne successivamente venduta.

Io raccoglievo tutte queste storie, le ricreavo, ricostruendole e le mettevo in un giornalino al ciclostile che si chiamava il “Riccio” e poi cambiò nome nella “Civetta”.

Mi occupavo del giornalino insieme al parroco di Crespina appena arrivato Don Luciano Rita.

Tuttavia, a quei tempi questi fatti non interessavano alle persone. Purtroppo. La gente aveva altre preoccupazioni: doveva sopravvivere, erano per lo più contadini.

Mi trovai a differenziarmi sempre più dagli altri e senza il consiglio di nessuno, mi interessai al mondo dell’arte e degli artisti, allontanandomi dalle diverse attività dei miei compaesani.

Mi occupai anche della fondazione della Pro-Loco di Crespina con un certo Giorgio di Poldina.

Andai proprio con lui a Pisa, all’Ente del Turismo, si fece il viaggio con la sua automobile poiché io ancora non l’avevo, e così fondai la Pro-Loco di Crespina.

Successivamente, io me ne distanziai perché mi interessava l’arte e gli altri invece lavoravano, giocano a pallone, avevano una vita caratterizzata da interessi differenti dai miei. Io studiavo ancora, ma per un po’ mi occupai di alcune iniziative con Giorgio di Poldina, che gestendo un negozio di stoffe con la madre poteva disporre di più tempo libero.

Potemmo  realizzare tante idee,  tra cui la commedia teatrale “L’acqua cheta”, di Augusto Novelli, che ebbe un discreto successo, al tempo. A Crespina se ne parla ancora.

Un’opera che risultò fatta molto bene, grazie a tutti gli attori crespinesi.

Il maestro di musica Arrighi dirigeva le prove e si impegnò molto dedicando ogni sera il suo tempo alla realizzazione di questa opera e con lui anche Ivano Sgherri fu molto importante per la commedia.

All’epoca mi interessavano tanto anche la musica, l’opera, il canto, le canzoni.

Mi occupavo di musica con mio fratello Giuseppe, terreno fertile, che si faceva ben contaminare dalle mie passioni. Sua figlia, Maria Luisa, diplomatasi al conservatorio di La Spezia come Soprano ha proseguito, portandola avanti, questa nostra predisposizione alla musica e al canto.

In quegli anni pensavo che l’arte fosse irraggiungibile, invece, non era così, perché pochi avevano questo interesse.

Molti artisti divennero miei amici e iniziarono a regalarmi opere.

In seguito grazie al mio lavoro  potevo comprare le opere che desideravo, e con il tempo ne  acquistai sempre di più,  concretizzando la mia passione.


3) Chiara:  arte e denaro… lei è noto, oltre che per la sua collezione d’arte tra le più vaste esistenti, anche perché non ha mai fatto dell’arte un mercimonio non l’hai mai utilizzata e sfruttata a fini prettamente economici. L’ha amata come fine e non come mezzo per ottenere altro. Cosa puoi dirci di questa scelta così unica e nobile quanto ammirevole?

Carlo Pepi: io ho fatto così perché questa è la mia passione, non volevo diventare un commerciante d’arte, un mestierante, non volevo guadagnarci.  Io avrei potuto farlo, comprare e vendere… Ma io, una volta comprata un’opera, non riesco proprio a separarmene.

Sì, è vero, questo denota la necessità di possedere ciò che mi piace di più e potrebbe essere interpretato anche come un aspetto negativo  ma se non ci fosse questo desiderio di possedere l’arte chi comprerebbe le opere ai poveri artisti?

Cosa ne sarebbe di loro se tutti volessero solo vendere e comprare…e nessuno possedere davvero le opere?

Per chi, allora, gli artisti creerebbero le loro opere?

Nel mio percorso mi sono occupato di molti casi plateali, sono stato chiamato in controversie in tribunali, mi sono stati chiesti pareri sull’autenticità di certe opere, tante volte. Io ho sempre tenuto tutto questo come un hobby e come si tiene una cosa collaterale, occupandomi di arte senza volerla far diventare attività economica e professionale.

Io non ho dedicato all’arte tutto quel tempo che la gente pensa.

Ho sempre avuto incontri favorevoli, fortunati, per la mia collezione tutto è sempre stato un percorso in discesa. Soprattutto perché l’ottocento non piaceva a nessuno ed eravamo in pochi ad occuparcene, dal momento che, secondo me, in pochi hanno capito la portata artistica di quel secolo.

Inoltre, a me piacevano i disegni. Per me sono la prima impressione dal vero, sono più importanti dei quadri che invece possono seguire il condizionamento del mercato e del pubblico.

I disegni sono la prima impressione, sono il vero.

Mi interessano  i disegni, perché ritengo che rappresentino la piena libertà dell’artista.

Dopo  il disegno c’è l’opera dello studio molte volte una copia dell’opera vera e propria compiuta nel disegno. L’opera, molte volte, è una copia del disegno. Disegno come originale, azione spontanea, che fa trasparire l’anima dell’artista senza compromessi.

Il quadro, invece, è, a volte, influenzato dal mercato.

Io ho avuto questa fortuna che i disegni non piacessero a nessuno, anche se ciò, allo stesso tempo, mi ha sempre portato molta amarezza poiché nessuno apprezzava ciò che per me è, invece, fondamentale e importante.

Io non mi faccio pagare per i pareri che mi vengono chiesti continuamente, per gli interventi che presto in questioni importanti, come nei tribunali, per esempio.

Me ne occupo gratuitamente.

Un mio record: sono arrivati a offrirmi due milioni e mezzo di euro per un’opera.

Nella società comune, spesso, chi dice quello che pensa, chi non gareggia,  chi vive contro corrente, rema rema ed è sempre lì…il grosso fiume da risalire semmai lo riporterebbe alla foce…ed è già tanto se non si fa riportare indietro dalla corrente.

4) Chiara:  il suo è un modo alternativo di approcciare l’arte, non fatto di compravendite multimilionarie, ma amore puro per le opere un modo che dovrebbe avere più risonanza e fungere da esempio.

Carlo Pepi: il mondo funziona in un altro modo: se una collezione costa tanto allora tutti ne parlano bene, la lodano e pensano che sia meravigliosa.. il pubblico ragiona spesso in funzione dei soldi, dei prezzi.

Tuttavia il valore monetario di una collezione non corrisponde necessariamente al suo valore artistico.

Esistono opere dimenticate e ignorate che valgono artisticamente molto.

Purtroppo è così, se si sfugge alle logiche dominanti, alle logiche del mercato anche se un artista è valido e bravo viene messo in un “cantone”.

 E’ sempre stato così e l’arte non è rimasta indenne da tutto il resto.

Io a volte mi rassegno, ma poi la passione è più forte e scatta di nuovo tutta la motivazione innata che mi caratterizza da sempre.


5) Chiara: arte e creatività svolgono un ruolo fondamentale nell’ambito dell’evoluzione infantile, tuttavia, per molti versi, entrambe sembrano essere oggetto di scarso interesse da parte delle istituzioni e soprattutto della scuola. Cosa ne pensi? Quali pensi possano essere i motivi di questo squilibrio formativo?

Carlo Pepi: la creatività è un settore che sarebbe importantissimo.

Il pensiero, l’andare avavanti, sono fondamentali ma è anche vero che chi più precede gli altri e va più avanti, più è innovativo, più è destinato a essere solitario perché la gente non lo capisce.

Tutti i grandi artisti sono sempre stati vittima di molte disavventure, perché non sono stati capiti se non, a volte, soltanto dopo morti.

Ma è fondamentale la creatività, il fare cose nuove, inventare, dare spazio ai nuovi pensieri.

Tutto questo va in parallelo alla scienza, come in una gara, seguendo la predisposizione naturale ad andare avanti, il genio innato che avevano i grandi scienziati, il cercare sempre di andare oltre, l’arte vera deve essere innovazione se no è artigianato.

6) Chiara: lei ha avuto modo di conoscere molti artisti. Ha potuto riscontrare se ci sono condizioni educative, formative ricorrenti nelle loro storie che permettono ad un individuo di poter sviluppare e di lasciar fluire la sua parte più creativa al meglio? Avvicinare l’arte ai bambini potrebbe essere un modo di evolvere socialmente?

Carlo Pepi: i veri artisti sono impulsivi e anarcoidi, non si possono irreggimentare, non sono imparentati, sono liberi da qualsiasi condizionamento.

Non trovo un abbinamento con l’educare: nella scienza è più facile e più necessario collaborare, sapere cosa è stato fatto prima, fare ricerca, nell’arte no, anche se ci sono correnti, movimenti imparentati, l’arte è una terra libera, è individuale, ognuno si esprime in piena libertà e autonomia.

Si possono proporre argomenti ma poi ognuno lo studia e ricerca in piena autonomia, è se stesso fino infondo.

Il parallelo con l’educazione c’è poco secondo me, uno è se stesso se è artista.

La scuola è pericolosa nell’arte perché può inquadrare e tarpare le ali.

Io ho molti dubbi relativi al rapporto tra la scuola e l’arte e molti grandi artisti che decidono di diventare “normali” magari acquisiscono risonanza accademica ma perdono originalità e valore artistico.

Le scuole imprigionano la mentalità, stringono il pensiero attraverso professori a volte ottusi che non possano fare molta strada altrove.

Se qualcuno ha una predisposizione è meglio lasciarlo stare.

Incoraggioralo, dirgli “fai”, “vai”, ma lasciarlo libero.

A Crespina ne è un esempio l’adolescente Orso Frongia, ( ha già varie mostre all’attivo), che in pochi tratti è capace di riassumere l’anima di un luogo.

L’arte non si insegna, si possono dare principi iniziali, incoraggiare, la scuola deve incoraggiare, scoprire chi ha certe passioni e far sì che le coltivi e trovi e abbia lo spazio per farlo.

Il rischio, altrimenti, è sempre quello di entrare nel campo dell’artigianato e non in quello dell’arte, della creazione artistica.

La scuola rischia di rendere omogeneo tutto.

Mentre è necessario diversificarsi dallo standard.

Silvestro Lega, Chiesa di Crespina, 1886
Silvestro Lega, Chiesa di Crespina, 1886

Intervista: AHMED AL BARRAK “Geste et Lumière”

 

Nell’ambito dei laboratori d’arte che si svolgono a cadenze regolari presso il centro Sete Sois Sete Luas di Pontedera, qualche tempo fa, c’è stata occasione di lavorare con l’artista maghrebino  Ahmed al Barrak.

https://it-it.facebook.com/FestivalSeteSoisSeteLuas

www.festival7sois.eu

http://ahmedalbarrak.canalblog.com/

Pittore e professore all’Istituto Nazionale di Belle Arti di Tetouan (Marocco), centro che rappresenta oggi uno degli spazi più fruttiferi nell’ambito dell’arte contemporanea internazionale. Oltre al laboratorio Ahmed ha esposto alcuni dei suoi lavori in una mostra dal titolo “Geste et Lumiere”.

Opere dove prevaleva l’immensità del blu, in oceani di sfumature, a volte punteggiati con accenni di colori caldi. In linee curve, ampie e appassionate visioni trasognate emergono dalle profondità di un blu che è mare, aria, cielo, infinito.

Durante i giorni del laboratorio, oltre ad avere avuto la fortuna di lavorare con lui, per conoscerlo meglio, abbiamo voluto porgli alcune domande.  Come sempre il focus del nostro interesse sta nel rapporto tra l’essere bambino e l’arte, nel suo svolgersi nell’arco dell’esistenza, per lasciarci incantare dalle storie vere che possiamo raccogliere.

Per il catalogo della mostra:  http://www.festival7sois.eu/wpcontent/uploads/2013/06/catalogo_BARRAK.pdf

Pontedera: Laboratorio d'arte gratuito con Ahmed Al Barrak (Marocco)

  Chiara: cual ha sido su relación con el arte cuando era pequeño?    (Che relazione avevi con l’arte durante l’ infanzia?)

  Ahmed: Petit, comme tous les  enfants, et  je pense que c’est inné, n’importe quelle feuille blanche était prétexte à remplissage,  en gribouillant n’importe quoi.   Je ne me souviens pas à quel âge, mais le graffiti sur les murs du quartier a été une autre façon de m’exprimer, j’adorais les films westerns donc je dessinais  Gary Cooper, Burt Lancaster… avec chapeaux et revolvers.  Bien sur les voisins  n’appréciaient  pas et on était puni par nos parents.  Mon père qui était un grand cinéphile me disait : tu n’as  pas honte de salir les murs des voisins et en plus tes dessins ressemblent plus à des voyous handicapés qu’à  Gary Cooper…
Mais ça ne me décourageait pas.

Traduzione: da piccolo, come credo facciano tutti i bambini,  (penso che ciò sia un modo di fare innato), qualsiasi foglio bianco era l’occasione per disegnare o provare a disegnare qualcosa. Non ricordo a quale età, ma ad un certo punto i graffiti sulle mura del mio quartiere  diventarono un altro modo per esprimere me stesso. Mi piacevano molto i film western così, su quelle mura, disegnavo proprio gli attori dei film, come Gary Cooper, Burt Lancaster ed altri, tutti con i loro cappelli e le rivoltelle. Naturalmente i miei vicini di casa non apprezzarono  molto e così i miei genitori dovettero sgridarmi per farmi smettere.

Mio padre, che era anche lui un grande appassionato di film,  disse che dovevo finirla di disegnare sui muri del quartiere e soprattutto mi fece notare che quei disegni non erano molto somiglianti agli attori dei miei film preferiti, ma che, anzi, somigliavano più a dei teppisti e per di più teppisti con qualche problema, piuttosto che a Gary Cooper.
Ma queste critiche negative non mi scoraggiarono affatto.

Chiara: Hay figuras significativas (maestros, padres) para tu crecimiento artístico? Y cuales son? (Ci sono state figure particolarmente importanti, come insegnanti o genitori, per la tua crescita artistica e in caso affermativo, chi?)

Ahmed: Au collège,  j’apprenais mes leçons de sciences naturelles  avec des  schémas et des croquis, mon professeur, aimait tellement la précision de mes croquis qu’il m’envoyait régulièrement  au tableau dessiner pour mes camarades.  Je m’appliquais  pour ne pas décevoir… puis j’ai eu de bons professeurs, c’est vrai.

Ensuite, au  cinéma,  le film – L’Extase et l’Agonie-  de Carol Reed, avec Charlton Heston qui jouait le rôle de Michel-Ange.

Michelange représentait pour moi le vrai artiste par sa personnalité, par son dessin, et surtout par sa sculpture bref par son génie, je recopiais  ses sculptures au crayon.  Puis j’ai commencé  à  faire des reproductions d’ oeuvres de Leonard de Vinci, de  El Greco… les impressionnistes, les fauves, Les nabis qui m’ont appris la couleur.

Traduzione: durante il periodo del college, fare disegni, diagrammi e schizzi, mi aiutava a comprendere meglio le lezioni di scienze naturali così il mio maestro, apprezzando molto la precisione e la pertinenza delle rappresentazioni che facevo durante le lezioni, mi chiedeva di andare a farle alla lavagna in modo che potessero vederle tutti i miei compagni perché riteneva che ciò avrebbe aiutato anche loro a capire meglio i vari argomenti.  Allora mi impegnavo al massimo per fare un buon lavoro, inoltre, nel mio percorso  ho avuto buoni insegnanti, è vero.

Per la mia formazione, grande importanza l’ha avuta il cinema, penso al film  “Il tormento e l’estasi” di Carol Reed, con Charlton Heston nel ruolo di Michelangelo.

http://it.wikipedia.org/wiki/Il_tormento_e_l%27estasi_%28film%29

Michelangelo  per me rappresenta il vero artista con tutta la sua personalità, dal  disegno, alla scultura e soprattutto per la sua genialità. Ho copiato le sue sculture a matita. Poi ho iniziato a fare le riproduzioni delle opere di Leonardo da Vinci, quella di El Greco, degli impressionisti, dei Fauves, Les Nabis, e così copiando le opere di questi maestri ho imparato più profondamente il senso del colore.

  Chiara: Cuales son en tu opinión las actividades mas adaptas para desarrollar el sentido artístico en los niño (Secondo te quali possono essere le attività più adatte a sviluppare il senso artistico nei bambini?)

Ahmed: L’éducation artistique doit être  obligatoire  pour tous les élèves, et enseignée sur plusieurs années car il s’agit d’un processus à long terme.

Il faut concilier observation, réflexion et création. Ce qui permet à  l’enfant  d’acquérir  un équilibre affectif, physique, psychique et intellectuel.

L’éducation artistique permet à l’enfant de s’exprimer, de développer son  sens critique et son esprit d’analyse dans le monde qui l’entoure et de s’engager activement dans les divers aspects de la vie sociale en le confrontant avec son époque et en lui permettant d’y vivre.
L’éducation artistique  permet à l’enfant une ample connaissance  en découvrant, les créations artistiques présentes et passées, l’artisanat, le cinéma, les images publicitaires… toujours avec un esprit critique et chose essentielle elle lui permet de s’ouvrir à  d’autres cultures  donc d’autres  valeurs universelles.

L’enseignement de l’éducation artistique à l’enfant est aussi   un investissement pour  l’avenir de la société.
Investir sur l’enfant c’est lui apprendre à être  responsable, lui apprendre la rigueur, la créativité, l’esprit critique, l’autonomie,  la possibilité de se prendre en charge…tout cela pour préparer un adulte capable de développer les ressources humaines nécessaires à l’exploitation de la richesse et du patrimoine culturel.
Les élèves doivent découvrir progressivement les arts au travers des pratiques et des expériences artistiques.
Il est évident que par  éducation artistique je pense aussi à la musique, à la poésie, au théâtre, à la danse, au conte…tous les arts en fait.

Traduzione: 

L’educazione all’arte dovrebbe essere pienamente inserita a scuola per tutti gli studenti e durante tutto il corso dei loro studi in quanto è un processo che per svolgersi e attuarsi necessita di molti anni di formazione.

L’educazione dovrebbe cercare di conciliare, nel processo formativo, tre diversi momenti: l’osservazione, la riflessione e la creazione. Questo permetterebbe al bambino e quindi all’adulto di domani,  di acquisire un maggiore equilibrio emotivo, fisico, mentale e intellettuale.

L’educazione all’arte permette di imparare ad esprimersi ed a sviluppare  capacità critiche e insieme analitiche riguardo al mondo che ci circonda. Ciò è fondamentale per potersi impegnare attivamente nei diversi aspetti della vita sociale e poter essere parte attiva nel tempo in cui viviamo. Inoltre, una formazione artistica rende i bambini consapevoli di una vastissima conoscenza, relativa alle creazioni artistiche del passato e del presente, da quelle più propriamente artigianali a quelle cinematografiche, a quelle anche relative alla rivoluzione artistica in ambito pubblicitario. Una consapevolezza fondamentale ed essenziale che permette alle menti dei bambini di aprirsi a cogliere valori universali, rendendo disponibili all’incontro con l’altro e la differenza culturale.

Per questo l’insegnamento dell’educazione artistica ai bambini è un importante investimento per il futuro della società. Investire sui bambini significa insegnare loro la responsabilità, la disciplina, la creatività, il pensiero critico, l’autonomia, la capacità di sapersi gestire…tutto ciò in vista di un adulto che ha sviluppato quelle risorse necessarie a sostenere una società culturalmente ricca.

Gli studenti hanno bisogno di scoprire gradualmente l’arte attraverso pratiche artistiche e esperienze concrete. Ovviamente parlando di educazione all’arte intendo non solo disegno e pittura ma anche musica, poesia, teatro, danza, narrazione, intendo tutte le arti.

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Chiara: Crees que la escuela, la educación escolar dan el justo espacio a la dimensión del individuo tan importante (Credi che attualmente la scuola stia dando il giusto spazio a questa dimensione tanto importante per lo sviluppo dell’individuo?)

Ahmed: Nous savons tous que les matières artistiques, en général, ne sont pas encouragées soit par méconnaissance, soit par manque de moyens… donc on accorde moins d’importance a ces disciplines, les budgets alloués à l’éducation artistique sont faibles.
Je parle du moins de l’éducation artistique dans mon pays.

L’éducation artistique n’est pas une affaire d’école seulement , l’apport de l’école peut être renforcée par le contact direct avec les œuvres d’art, les musées, des spectacles, des concerts, des expositions, visite des sites archéologiques, des livres, invitations d’artistes, films…

Aujourd’hui, je pense qu’il est nécessaire d’introduire aussi l’utilisation de nouvelles technologies dans la pratique artistique tel que l’art vidéo, la musique électronique…

Traduzione:

Come tutti sappiamo, generalmente,  la scuola non incoraggia molto i ragazzi a occuparsi di arte e di materie artistiche in generale, o per ignoranza o per carenza di risorse, di conseguenza dal momento che tali discipline non sono considerate molto importanti, le istituzioni non sono motivate a stanziare fondi per sostenerle.

O almeno, questo è ciò che per lo più accade in Marocco, nel mio paese.

L’educazione artistica non è qualcosa che deve portare avanti la scuola da sola, in modo esclusivo, o con il solo lavoro fatto in aula, poiché la formazione, in questo campo, può essere migliorata e resa più incisiva attraverso il contatto diretto dei ragazzi con le opere d’arte, le visite dei musei, gli spettacoli, i concerti, le mostre, le visite presso i siti archeologici, letture di libri specifici, artisti ospiti che possano parlare ai ragazzi in prima persona del loro lavoro o di tematiche correlate, la visione di film.

Tutti questi possono essere canali di formazione paralleli e complementari al lavoro fatto in classe e molto importanti al fine di promuovere educazione all’arte.

Chiara: Cuales son los autores mas significativos que te han inspirado en tu trabajo?(Quali sono stati i grandi artisti più importanti per ispirare lo sviluppo del tuo lavoro?)

Ahmed: Comme je l’ai signalé plus haut j’ai été inspiré par les artistes de la renaissance italienne, mais aussi par d’autres artistes et mouvements divers : romantisme avec  Delacroix, Rembrandt, le fauvisme avec matisse, des artistes comme Andy Warhol, Jackson Pollock, les estampes japonaises et les miniatures arabes et perses qui sont une merveille et que beaucoup de gens méconnaissent,  et qui sont pour moi,  des œuvres abstraites avec des formes : cercles, demi cercle, arc avec des couleurs qui s’entremêlent  aux formes et donne une esthétique cosmique, comme d’ ailleurs les estampes asiatiques mais je suis quelqu’un qui touche à tout, tout m’inspire : les artistes la nature, l’architecture, je peux peindre suite à une image, à une musique… Je change de style en essayant d’évoluer, parfois ma démarche est celle d’un chercheur…
Actuellement je m’intéresse  à la trace que les gens laissent sur les murs , le sol ou partout ailleurs, bancs publics etc.

Traduzione: 

Come prima accennavo, gli artisti del Rinascimento italiano, sono stati una importante fonte di ispirazione per il mio lavoro, ma non solo in quanto, in seguito, mi sono ispirato molto anche ad altre correnti, come il Romanticismo con Delacroix e Rembrandt,  il Fauvismo con Matisse,   ad artisti come Andy Warhol e Jackson Pollock. Trovo meravigliose le stampe giapponesi e le miniature arabe e persiane, opere che in molti, credo, fraintendono e che, invece, mi attraggono nelle loro forme astratte di cerchi, semicerchi, archi che si intrecciano con la gamma dei colori creando un’estetica universale, come, anche, le stampe asiatiche.

Tendo ad essere toccato profondamente e ispirato da tutto: l’arte della natura, l’architettura, a volte i miei dipinti nascono dopo aver guardato una particolare foto, o ascoltato una musica, …e poi c’è sempre in me una tendenza al cambiamento, a trasformare, rinnovandolo, il mio stile per cercare di evolvere… con un approccio del tutto simile a quello di un ricercatore.

Negli ultimi tempi mi interessano molto le tracce, i segni, le forme che le persone lasciano sui muri, sui pavimenti delle strade, sulle panchine pubbliche o in altri luoghi.

 s16