Paolo Rizzi, oltre che artista è docente di storia dell’arte e filosofia. Dopo gli studi universitari in comunicazione svolti a Milano e varie esperienze professionali in Italia e all’estero, attualmente è residente in Toscana.
Le sue opere costituiscono una produzione metropolitana e tribale al tempo stesso, o forse tribale proprio perché metropolitana nel senso più autentico del termine. Visioni artistiche che non temono l’incontro con la filosofia e sfuggono dall’autoreferenzialità.
La dimensione internazionale delle esperienze professionali di Rizzi si riflette nel suo lavoro caratterizzandolo con un stile comunicativo e personalissimo.
Tra colori vivaci e forme dai tratti marcati il lavoro di Rizzi accompagna chi osserva in una dimensione fantastica popolata da robot, supereroi, astronauti, figure cangianti, tigri ipnotiche. Primi piani e città dove il colore carico ne narra le storie. Pittura di figure che a tratti si fanno specchio di chi guarda, per poi prendere forza nelle antiche tribù delle origini e nel corpo animale, ora della tigre, ora del cavallo, prima di smarrirsi di nuovo in un frigorifero allegramente colmo di cibi industriali. In alcuni frigoriferi dipinti da Rizzi troviamo anche libri, dadi e soprattutto tempo sottoforma di sveglia e altri oggetti, ognuno con un messaggio per chi guarda in una società che tutto consuma e divora, tutto vende e tutto compra. Modi di consumare fagocitando: un frigo dove purtroppo sono presenti anche animali, visti solo come cibo, senza la coscienza della differenza che sussiste tra una cosa e un animale. Un invito a riflettere, a prendere consapevolezza di ciò di cui ci nutriamo, a tutti i livelli: fisico, mentale, emozionale. Questo per orientare a un maggiore rispetto verso tutte le forme di vita animali che sono con noi in questo viaggio terreno.
I colori sono saturi e decisi, stesi seguendo a volte linee contrastanti e sovrapposte, altre volte con meticolosa coerenza, così come le forme geometriche tracciate con linee marcate a volte imprecise, graffiate. Le composizioni assumono un carattere vigorosamente primitivo che offre a chi guarda la certezza di una energia e di una forza che prende forma, provvisoria, accennata, ma sempre decisa e priva di ambiguità.
Visioni corroboranti di personaggi fantastici che sembrano provenire dai cartoons o da qualche giornale di fumetti dimenticato. Raccontano silenziosamente storie di viaggi e di esistenze intergalattiche o oniricamente quotidiane. Altri sé, visioni di una identità umana che si ritrova perdendosi nella molteplicità di una ricerca tra il serio e il faceto tra il reale e l’irreale, tra il tangibilmente materiale e il fantasticamente onirico. Le opere di Paolo Rizzi sembrano ritrarre una identità umana alla ricerca di sé stessa. La contemporaneità è crisi delle certezze. Se il novecento era stato definito da alcuni come secolo della crisi dell’io, oggi questa stessa crisi ha dilagato e dall’io si è riversata sul mondo come un’ eco nietzschiano inconsapevole che continua a propagarsi. Un cammino che appare senza appigli se l’io e le certezze ultime sono dissolte. Tuttavia, un cammino non tracciato è anche per questo un cammino dove infinite vie sono possibili, così le opere di Rizzi sono accomunate dalla tendenza alla ricerca e alla sperimentazione.
Per saperne di più sull’artista:
Chiara: ho letto che dipingi da quando avevi vent’anni: come è cambiato, nel tempo, il tuo modo di lavorare?
Paolo: essendo autodidatta ho dovuto dipingere molto e guardare moltissimo prima di trovare un mio modo di lavorare. E sostanzialmente negli anni è cambiato quanto tempo impiego a realizzare un quadro… ho imparato ad aspettare, a tornare sul lavoro tutte le volte che serve.
Chiara: cosa significa oggi essere un’artista?
Paolo: forse rubare più tempo possibile per me. Sfuggire alle richieste necessarie della società, creare un proprio mondo, una sorta di intercapedine fra il collettivo e il personale, fra il senso e il non-senso.
Chiara: cosa apprezzi di più in un’opera d’arte? (il soggetto, la tecnica, lo stile, il messaggio, altro…)?
Paolo: poichè non esiste un’unica opera d’arte, un unico modo di fare arte, tutte le cose che hai indicato possono essere apprezzabili. Vero è che se la tecnica, e soprattutto lo stile, non raggiungono una certa forza, l’opera d’arte non esiste. Il risultato rimane relegato in un tentativo, un’idea, niente di più. Ma è altrettanto vero che se il soggetto o il messaggio sono stereotipati alla fine il quadro è noioso…quindi direi che un’opera d’arte è l’insieme di tutte queste cose.
Chiara: tra i grandi musei internazionali che hai visitato dove torneresti più spesso?
Paolo: forse vorrei vedere quelli che non ho ancora visto, ad esempio non ho ancora visto un museo che contenga un certo numero di opere di espressionisti astratti americani degli anni ’50 e ’60 che per me sono fantastici. Comunque tornerei volentieri al Prado, a Madrid.
Chiara: un’opera d’arte è infinita nelle sue interpretazioni perchè cambia chi la guarda. Il processo ermeneutico non è esauribile. Sei d’accordo con questa affermazione?
Paolo: sì, forse ad un certo livello sociale, personale, culturale, ideologico l’opera d’arte non esiste di per sé, ma se penso a Michelangelo, ad esempio…. Le sue opere esistono di per sé. Chiunque le guardi prova stupore, sgomento, attrazione. Non è semplicemente un’induzione sociale. Per tutti gli altri forse ci vuole il pubblico. Ma un’opera d’arte non deve necessariamente stupire, può evocare pensieri, domande, provocare, seminare il dubbio o il panico. Può raccontare, mostrare…Se ossevo la tua domanda, filosoficamente…”Un’opera d’arte è…”allora hai già accettato che l’opera d’arte esista, e se hai già scelto con cosa ti vuoi confrontare allora l’ermeneutica viene dopo, come una specie di alta consolazione, un tentativo di giustificare quel che non è giustificabile. L’arte esiste davvero, di per sé, è una manifestazione misteriosa…
Chiara: ci sono state fonti d’ispirazione, persone, esperienze che credi abbiano maggiormente influito sulla tua produzione artistica?
Paolo: certo, infinite, sempre in divenire, attuali, non smetti mai di vedere. Può essere un grande artista o un muro scrostato. Sicuramente l’arte moderna in particolare è al centro della mia formazione e anche se molto diversi da me gli espressionisti astratti americani da De Kooning a Rothko a Louis Morris, Kleine, Motherwell…mi hanno ispirato moltissimo. Anche se forse il quadro più sconvolgente che ho visto dal vivo è la “Deposizione di Cristo con angelo” di Antonello da Messina.
Chiara: gli studi filosofici e il lavoro di professore di filosofia, come credi possano influire sul tuo modo di essere pittore?
Paolo: difficile dire perchè le due cose sono sempre coesistite per me, comunque direi il senso di ricerca. Un’opera non è il punto di arrivo ma il momento di un viaggio. Il senso dell’arte come il divenire di una scoperta mai conclusa. Sono un artista eracliteo direi, “polemos” padre e madre di ogni cosa…forse la filosofia ha reso accettabili i miei conflitti umani troppo umani.
Chiara: la tua produzione è particolarmente ricca e eterogenea ma vi si intravedono forse anche alcuni temi ricorrenti come, per esempio, la crisi di identità dell’uomo contemporaneo e il suo spaesamento. Un uomo contemporaneo che stenta a riportare una natura tribale, a tratti animale, nei ritmi prosaici della contemporaneità. Trovi che ci siano echi antropologici nei tuoi quadri?
Paolo: antropologia del paleolitico intrecciata a quella metropolitana del presente…sì. Mi interessa sempre più che un lavoro sia sospeso fra il senso del passato e del futuro. Qualcosa di arcaico, della tribù originaria in grado di proiettarsi verso una visione futuribile. Potrei definirmi un archeologo dell’inconscio collettivo…uno psicoarcheologo. Indubbiamente cerco un senso di appartenenza a qualcosa perdutosi in eoni di tempo storico, sociale, ideologico. O più semplicemente cerco la polvere sotto il tappeto.