Stefano Tommasi è un fotografo che vive a pieno la fotografia come arte narrativa e interpretativa al tempo stesso.
Nel suo lavoro prendono forma sogni e visioni o forse una realtà nuova, dove a essere portata alla luce è la poesia.
Così le immagini, a volte sfiorate dalle parole, incantano lo spettatore. Perdersi a guardare le sue fotografie è un’esperienza intensa, interiore e sensoriale insieme. Il processo creativo costruisce il concetto che prende forma nello scatto.
“There are Things Here Not Seen in This Photograph”: scrisse Duane Michals sopra ad una sua nota fotografia e queste parole potrebbero essere scritte anche sulle foto di Stefano Tommasi.
La fotografia non è più, in questo caso, il frutto di un’istante rubato ma rappresenta il risultato di un progetto che affonda le sue radici nella storia stessa dell’artista e nella sua visione del mondo.
Nelle opere di Stefano Tommasi gli sfondi, anche quando sono spazi chiusi, sembrano aprirsi diventando prospettive da percorrere, inviti a uscirne per ritrovarsi in uno spazio che non è più racchiuso ma aperto, come il messaggio offerto. Persone, cose o elementi naturali sono tutti caratterizzati da uguale forza narrativa e intensità espressiva in quanto svelati nella loro dimensione surreale.
Stefano Tommasi ha una formazione originale e poco convenzionale dettata dal talento e dalla passione che lo ha portato a ricevere premi in Italia e all’estero e a occuparsi di varie forme d’arte come la danza e il teatro. Oltre ai prestigiosi riconoscimenti ricevuti, l’artista è impegnato in mostre e esposizioni in Italia e all’estero.
C: quello che fai inquadra letteralmente la realtà da un punto di vista poetico. Sei sempre stato in grado di farlo, fin da bambino?
S: la mia, è stata un’infanzia che definirei intima e libera: non ho frequentato l’asilo, non mi piaceva stare assieme ad altri bambini. Non amavo la condivisione, nemmeno dopo, alle scuole elementari.
Giocavo da solo e sognavo, in giro per il mio piccolo borgo e nei boschi rassicuranti e pieni di magia.
I miei mi lasciavano fare. Ero felice e quieto. Crescendo, la poesia si è un po’ assopita per molti anni, fin quando è, inaspettatamente, riapparsa; come un sogno che torna alla mente.
E tutt’ora mi accompagna.
C: ricordi il tuo primo incontro con una macchina fotografica?
S: mio padre ha sempre avuto un’indole artistica: è stato per molti anni musicista e parallelamente ha coltivato la passione per la fotografia.
I nostri anni (miei e di mia sorella, di 2 anni più grande), sono stati dolcemente raccontati dalla macchina fotografica di papà. Ho sempre visto e toccato macchine fotografiche da che mi ricordi. Nonostante ciò, non avevo ancora passione per la fotografia e quindi, per rispondere correttamente alla tua domanda, ti dico che il primo incontro con la macchina fotografica l’ho avuto con me stesso, quando ho capito di averne bisogno per esprimermi senza dover parlare.
C: offrire corsi di fotografia agli studenti già a scuola potrebbe essere un modo di arricchire la formazione?
S: non saprei. Personalmente, ritengo piuttosto inutili i corsi fotografici. Sia a scuola che in genere.
So di essere impopolare nel dire questo. Io stesso ne tenevo nel recente passato, probabilmente senza nemmeno averne la piena consapevolezza. Credo che la fotografia contemporanea non abbia molto da insegnare. Parlo a livello tecnico. I migliori fotografi che conosco, non sanno molto di fotografia. Non sono traviati, usano il mezzo per esprimere le proprie emozioni, la propria visione del mondo esteriore e, talvolta, interiore. Offrirei corsi di educazione al bello.
C: le tue foto raccontano storie che non si esauriscono nel momento che la foto ritrae, invitano a immaginare un prima e un dopo. Ricerchi sempre questa dimensione?
S: la mia fotografia ha un approccio fondamentalmente emotivo/istintivo.
Sono spesso immagini “sospese”, in bilico tra prima e poi.
So che può sembrare un concetto piuttosto mistico, ma è così che nascono le idee: mi bussano alla porta ed io non devo far altro che farle entrare, e ritrarle. Amo quando accade che, anche solo ad una singola persona, una mia fotografia ha stimolato una curiosità, un’ emozione, un ricordo. Qualcosa che è anche un po’ suo.
C: una foto è una lettura della realtà: non è un fatto ma un’interpretazione. Cosa ne pensi?
S: penso che tutto sia interpretativo, la vita stessa lo è.
C: Lucca e la Garfagnana sono per te fonte d’ispirazione?
S: la Garfagnana senz’altro.Ho bisogno di solitudine per creare i miei lavori. Scenari onirici naturali. In questo, la Garfagnana è un paradiso. Non ho mai vissuto molto a lungo in luoghi opposti. Forse troverei altre ispirazioni, forse no.
C: come definisci la fotografia concettuale?
S: concettualmente indefinibile.
C: esiste un fotografo al quale ti ispiri di più?
S: esiste un fotografo meraviglioso che ho conosciuto soltanto 2 anni fa, ed è Duane Michals. Una cara amica mi disse che le mie fotografie le ricordavano quel fotografo, così l’ho cercato: sono rimasto a bocca aperta dalla forza emotiva delle sue opere ed anche alla vicinanza con il mio sentire. Posso dire che io sia stato ispirato da Duane Michals prima ancora di conoscerlo.
C: come è nata l’idea dei tuoi autoritratti?
S: dalla necessità e desiderio di esprimere la mia visione del mondo, sia onirico che reale. Che poi, è la stessa cosa.
C: foto e parole sono spesso insieme nei tuoi lavori: esigenza o gioco creativo?
S: talvolta, le immagini non sono sufficienti per esprimere un concetto. Hanno bisogno di una “spinta”, di una colonna sonora sussurrata. Direi che sia un’ esigenza ma anche desiderio di sperimentare. A volte le immagini parlano da sole, a volte le parole creano fotografie, altre volte si incontrano, al centro.
Un uomo e una donna che si abbracciano rappresentano un centro del mondo.
Un centro da cui tutto ha inizio per esplodere in forme e colori.
Amore in una naturale purezza di abbracci che si offrono a chi guarda come “una farfalla al mezzogiorno”.
Le coppie di Dariush, gli animali, come cavalli e gatti, prendono forma dall’infinita molteplicità e paiono sul punto di fondersi di nuovo, un attimo dopo, nel vortice eterno del tempo: quell’abbraccio o quella posa, li avrà cambiati fino alla loro profondità, per sempre.
Come si può amare l’altro? Solo una sua parte è concessa: conoscenza e comprensione, come siamo soliti intenderle, sono parziali:
ho amato un quarto di una donna
scrive Dariush, in uno dei suoi libri.
Un pensiero capace di ricordare, tra gli altri, Pessoa, che ne Il libro dell’Inquietudine scrive:
due persone dicono reciprocamente “ti amo” o lo pensano, e ciascuno vuol dire una cosa diversa, una vita diversa, perfino forse un colore diverso o un aroma diverso, nella somma astratta di impressioni che costituisce l’attività dell’anima.
L’incontro vero …quando è possibile?
Resta desiderio illusorio o è per noi possibile viverlo tra gli istanti che susseguendosi spiegano la nostra vita?
C’è il rischio di diventare pezzi in un puzzle dal disegno già stabilito.
La nostra libertà creativa può esprimersi davvero costruendo, come si fa con il gioco delle costruzioni, qualcosa che noi abbiamo pensato e progettato, autonomamente.
Così è necessario agire, afferma Dariush: “LEGO” e non puzzle, mattoncini componibili con cui dare forma e significati.
Quello di Dariush è uno stile che affonda le sue radici nella cultura mitologica e artistica persiane.
Dariush è un pittore nato a Teheran e vissuto in Francia e Italia, dalla formazione artistico-culturale complessa e ricca. Le sue opere aprono a tempi e spazi lontani. Come porte aperte su un’altra dimensione dell’esistere i suoi lavori ricordano che la realtà che ci circonda non è schiacciata nel presente e in quello che crediamo di vedervi. Vi si schiudono visioni e prospettive nuove, inedite e sorprendenti.
La dimensione che abitiamo ha radici nel tempo ed è portatrice di differenti significati.
Sorrisi luminosi irradiano un gioioso senso di libertà.
I lavori di questo artista, che ha raccolto innumerevoli e prestigiosi riconoscimenti in Italia e all’estero, si trovano in varie nazioni ma anche a Lucca, alla Galleria L’Arte, curata da Pierluigi Puccetti. Le opere riportate in questa pagina sono tutte litografie realizzate da Angeli e si trovano alla Galleria l’Arte.
Chiara: Teheran, tutto comincia a Teheran, in un luogo che fino al 1979 si poteva chiamare Persia.
Dariush: io sono un persiano di Iran. l’ Iran è un luogo pieno di differenze che vivono insieme da migliaia di anni in un modo che non si ritrova in nessun altra parte del mondo. In Persia ci sono settantadue diverse appartenenze etnico-religiose: azeri di Iran, baluchi di Iran, kurdi di Iran, urdi di Iran, gilaki di Iran, ebrei di Iran, armeni di Iran, zarathustriani di Iran, africani fuggiti dalla schiavitù, due ceppi di cinesi rimasti lì dalla via della seta, discendenti di Alessandro Magno, turkmeni di Iran e molti altri.
I Persiani sono sempre stati molto noti per il loro senso dell’ospitalità, non è facile pagare un persiano perché vorrà sempre ospitarti gratis. In Persia, tutto ciò, si chiama proprio “l’arte di vivere insieme” una particolare abilità nel tenere insieme, in pace e collaborazione reciproca, appartenenze etniche e religiose molto diverse tra loro.
Chi arriva da fuori, una volta in Persia, riesce a farla propria.
Chiara: come era la scuola a Teheran quando eri piccolo?
Dariush: le differenze con la scuola di oggi sono innumerevoli. Stiamo parlando di ben cinquanta anni fa e ci sarebbero molte cose da dire. A scuola si faceva molto artigianato, in particolar modo vicino alle feste o alle ricorrenze. Io ero considerato il migliore in questo genere di attività e venivo premiato. A Pasqua, una volta ho vinto in premio sedici uova. Con i miei amici ne mangiai così tante che dovetti andare dal dottore! Spesso a scuola dovevamo creare oggetti, come gli aquiloni o tante altre cose che poi facevo anche per gli amici. A scuola c’era molto artigianato, coloravamo tutto, anche scatole di fiammiferi. A Teheran tutti i bambini andavano a scuola, fuori dalla capitale meno. Nella generazione dei miei genitori c’erano molti intellettuali e poco analfabetismo, mio padre ha studiato come generale in Francia, per esempio.
Chiara: cosa la ha spinta a cominciare a dipingere?
Dariush: avevo bisogno di guadagnare, mi dedicavo all’arte decorativa e al disegno industriale in Persia, guadagnavo ventidue volte lo stipendio di un operaio ma ho lasciato perché sentivo di avere bisogno di fare qualcosa che mi appassionava di più. Sono venuto a Firenze e mi sono iscritto a architettura, ma facevo anche belle arti e scultura, con Berti e Farulli. Farulli mi fu indicato da un mio professore persiano che aveva studiato a Roma. In quegli anni ero molto attivo nel sindacato degli studenti, occupandomi delle rappresentazioni teatrali. Ho utilizzato molte volte le storie di Behrangi o di Brecht per fare teatro negli anni ’70. Costruivo maschere e marionette, lavoravo in uno spettacolo ispirato alla breve storia dello scrittore iraniano Samad Behrangi, The Little Black Fish. Dario Fo, vedendo che ero un buon artigiano mi chiese di lavorare con lui. Io non parlavo bene italiano ma a lui piaceva molto ciò che realizzavo. I temi dello spettacolo erano la ribellione all’ingiustizia e alla prepotenza, si trattava del capodanno 1976. Avevo realizzato un Unicorno. Ho portato in giro questo spettacolo quando avevo venticinque anni, da Napoli a Sanremo per trenta volte, sempre in piazza. Il linguaggio era molto popolare e provocatorio.
A me non è piaciuto mai restare confinato in un solo campo, ho sempre preferito spaziare tra varie forme artistiche, in molti rami. A Firenze dipingevo opere che vendevo a genitori di iraniani che vivevano lì. Poi a Nizza ho iniziato a lavorare alla galleria Ferrero, dove c’erano degli originali di Chagall. Prima di allora mi dicevano che facevo cose troppo classiche. Ma nel 1979, quando ormai avevo deciso di tornarmene in Persia, Ferrero volle comprare tutti i miei lavori. Da lì lavorai sempre con lui che apprezzò tutto quello che avevo fatto fino a quel momento, anche i disegni sulle mitologie persiane. Fu Ferrero a consigliarmi di andare a Lucca a creare litografie, un’arte che pochi sapevano fare bene. Non conoscevo Lucca e in estate sempre del ’79 ho iniziato a lavorare con Giuliano Angeli, in via della Zecca, nelle litografie. Ho lavorato lì per 35 anni. Poi purtroppo chiuse perché iniziarono a diffondersi tecniche di riproduzione digitali e molto meno artistiche e specializzate. Quando Angeli lavorava, la sua intera famiglia era specializzata e impegnata nel lavoro delle litografie, tanto grande era l’applicazione che richiedeva questa specializzazione. Talvolta occorreva un’intera settimana per realizzare una litografia e il costo era necessariamente alto. Si trattava del tempo e del ritmo ormai perduto delle piccole botteghe artigiane. Come paragonare i cavalli alle Ferrari. Inizialmente io facevo litografie su “Lettere di re”, un antichissimo libro mitologico persiano, tradotto anche in cinese, che raccoglie storie di 5000 anni fa in sette volumi. Io allora facevo lavori su questo libro ma non piacevano molto agli acquirenti e allora lavoravo con l’astrologia, facendo illustrazioni astrologiche oppure decoravo e realizzavo i certificati dei tappeti persiani. I tappeti persiani di grande pregio sono sempre accompagnati da un certificato decorato artisticamente che ne riporta i dati principali.
Chiara: a quel punto si è dedicato sempre alla pittura?
Dariush: avevo voglia di fare qualcosa di diverso; io scrivo persiano, francese e italiano. Così ho iniziato a scrivere libri, tra i quali uno è tradotto in Italiano e si chiama “1,2,3…”. Mi occupo anche di numerologia, a modo mio. Scrivo storie bizzarre.
Chiara: un libro onirico, di visioni, simbolico con illustrazioni pregiate. Leggo la prima riga
I sogni sono passeggeri come il vento
e poi vado avanti…
Amo il tempo
tempo che non capisco
vado avanti e posso cogliere nel libro una visione del tempo che diventa mistero, che fluisce
non uguale
non è neanche simile, paragonabile, adesso
L’amata respira come
come il movimento di una farfalla
sul bordo di una rosa
prima di partire
E poi la vita umana è mistero
quasi corro per risalire sul treno
mi ricordo del tunnel, nero
e bianco.
Ma io non mi rammento più se sto
partendo o tornando.
Chiara: Sepheri, uno dei più grandi pittori e poeti iraniani suggerisce che dovremo piuttosto nuotare nell’incanto della rosa invece di cercare di capirne il segreto.
Dariush: per avvicinarci a questo grande poeta è importante ricordare dove è nato. Nacque e visse a Kashan in una bellissima città al bordo del deserto persiano. Il Dasht-i-Lut è un enorme e arida distesa salata e desertica. Non è come il deserto dell’Arabia Saudita dove dentro ci sono gazzelle e animali di ogni tipo ma più aspro e più estremo. Tuttavia, negli anni 50 hanno fatto un censimento e vi hanno trovato dentro più di mille villaggi che non sapevano nulla di quello che accadeva nel resto dell’Iran, conoscevano solo la mitologia, come le già citate “Lettere dei re” tramandate oralmente. Sepheri fu un artista molto popolare e utilizzò un linguaggio semplice. In alcune delle sue opere ci ricorda di non sporcare l’acqua perché forse un vecchio metterà lì il suo pane per ammorbidirlo oppure una madre potrebbe utilizzarla per dissetare suo figlio.
Chiara: oggi ci fanno credere di vivere in un mondo minacciato dallo scontro tra occidente e oriente.
Dariush: l’uno non può stare senza l’altro. Ho sempre pensato che ci siano due tipi di economia, una di pace e una di guerra.
In seguito alla seconda guerra mondiale l’economia di guerra si è sviluppata sempre di più. La gente, nei più svariati modi, ha dimostrato di non volerla ma non è stata ascoltata.
Chiara: i personaggi delle sue opere guardano il mondo come immersi in un universo fuori dal tempo e hanno lo stupore dei bambini.
Dariush: la mia specialità è la matematica, io prendevo sempre 30 e lode a architettura, senza studiare. La matematica dà certezza, io volevo diventare pittore per guadagnare un po’ e dovevo disegnare in un certo modo per dare forza ai personaggi. Io non ho rappresentato le ombre, non ho dato molto movimento alle opere. Il mio capolavoro è il seno. Il collo è diritto. Queste caratteristiche hanno portato le mie opere un po’ fuori della dimensione carnale. Il naso non lo realizzo se il volto è di fronte e gli occhi sono ben aperti. Purezza. In un certo periodo ho osservato i lavori di altri come Manfredi, o Guttuso, rendendomi conto che i miei nudi sono innocenti e per nulla volgari. Io cerco di disegnare il nudo con una purezza simile a quella, per intenderci, che sono in grado di esprimere gli indigeni dell’Amazzonia nelle foto che li ritraggono, svestiti e naturali.
Anche Modigliani è andato in questa direzione, porta fuori dalla realtà i corpi che rappresenta ed è un mistero come sia arrivato a poterlo fare.
La performance sonora di Gianmarco Caselli con il C.R.P., Collettivo Rivoluzionario Permanente che ha visto Caselli affiancato da Andrea Ciolino, Michele Barsotti, Francesco Ricciu si è tenuta al Congresso di Sezione dell’Associazione Nazionale Partigiani Italiani dove si parla, prima di tutto di cosa significa essere Partigiani oggi.
Gabriele Olivati con la sua riflessione mette in luce il rapporto tra antifascismo, resistenza, patriottismo. Dire che essere partigiani significa essere antifascisti è assolutamente riduttivo. L’antifascismo era la particolare forma che i partigiani hanno assunto in quel preciso momento storico, quando coloro che limitavano la libertà erano i fascisti. Essere partigiani significa anche essere patriottici, ma non certo nel senso di un becero nazionalismo quanto nella determinata volontà di vivere in un Paese libero accanto a tanti altri Paesi ugualmente, profondamente liberi, per poi essere in grado di trovare insieme unità nella libertà, nel rispetto reciproco, nella condivisione, nella pace, nel dialogo, nello scambio.
Essere partigiani significa sapersi proteggere da ciò che oggi minaccia la libertà.
Quando qualcosa viene posto e immaginato come più importante della stessa democrazia allora c’è una minaccia concreta, reale, tangibile. Olivati continua individuando questa minaccia nelle leggi del mercato globale, nella diffusione dell’idea di essere immersi in un sistema economico che sovrasta, impera, determina, a prescindere, come un ineludibile quanto impersonale diktat.
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Altri interventi pongono l’accento su rischi e possibilità che il nostro nuovo contesto sociale presuppone, aprendo una porta nuova sull’inclusione. Chi viene a vivere in Italia ha bisogno di sapere cosa ha contraddistinto il nostro passato, quali strenue difese si siano attivate per proteggere una libertà minacciata. La proposta concreta è quella di creare occasioni di scambio e di conoscenza. Una chiave per costruire un terreno di valori condiviso. Conoscere la storia vuol dire conoscere gli uomini e ciò costituisce sempre, per tutti, la possibilità di acquisire nuove prospettive personali e sociali. La nostra storia può essere uno strumento per conoscere la libertà, quella libertà che il terrorismo dilania in chi lo porta avanti e in chi lo subisce.
In questo contesto si è inserita la performance di Gianmarco Caselli con altri 3 musicisti: con due pezzi scritti appositamente e dedicati a Luciano Caselli, “Risonanza” e “Istinto di Ribellione”, fuse insieme in un unico brano davanti a un pubblico che ha visto la partecipazione di tanti giovani e anche di tanti studenti.
La sperimentazione sonora di questi musicisti è in grado di creare immagini vivide di memoria. Messaggi sonori che nell’ascoltatore rendono quegli anni vicini, le emozioni attuali, vissute con partecipazione personale e non più persi nel passato.
La vita giovane e serena di persone che si sono trovate a dover fronteggiare un nemico indifferente ai loro sogni e ai loro progetti. Atmosfere cupe e gravi di canti armonici e note basse interrompono l’atmosfera creata da flauto e pianoforte. Suoni metallici ritmati come le catene di una schiavitù, di un assoggettamento che si fa minaccia concreta. Metallo anche come moneta. Urla trattenute, dignitoso lamentarsi davanti alla morte e alla fatica trova la sua forza in un “Istinto di Ribellione” che si fa parola annunciata con determinazione. In sottofondo non mancano le atmosfere di vecchie canzoni alla radio inframezzate dagli annunci del Duce e la guerra. Annunci e voci che atterriscono per la loro perentorietà. Tragici, assurdi annunci di guerra. Carte si accartocciano, fogli vengono strappati. Un sospiro finale accanto al suono del metallo ci indica che tutto è passato ma che non dobbiamo abbassare la guardia, mai, il metallo è ancora lì, come catena, moneta, nella sua fredda durezza.
In queste due composizioni la musica classica contemporanea si incontra con atmosfere della ricerca industriale berlinese più sperimentale.
A conclusione, il racconto di Luciano Caselli, partigiano novantacinquenne che racconta in prima persona la sua esperienza.
Chiara: come nasce questa collaborazione con l’ANPI?
Gianmarco: l’ANPI mi ha chiamato per realizzare l’intervista video a Luciano Caselli, che è mio prozio, e che mi aveva raccontato questa incredibile storia del suo passato del quale siamo tutti molto orgogliosi. A quel punto è nata l’idea di realizzare anche la performance con il C.R.P. Inizialmente era nato “Risonanza”, il brano per pianoforte, oggetti metallici e sospiro, poi, quasi da sé, è nato anche “Istinto di ribellione”, un pezzo più sperimentale, con l’elettronica, il coro e gli oggetti metallici.
Chiara: la musica e la storia, quale rapporto?
Gianmarco: uno degli obiettivi del C.R.P. è proprio quello di divulgare attraverso la musica eventi storici “scomodi” o semplicemente ricordarli: credo sia importante avvicinare le nuove generazioni alla storia grazie anche alla musica. In questo caso si è unita anche la componente “familiare” di Luciano che ha reso il tutto ancora più affascinante e coinvolgente.
Chiara: cosa è importante ricordare?
Gianmarco: è importante ricordare che la libertà va conquistata ogni giorno, che non si deve far finta di credere che vada tutto bene in un sistema in cui comunque è fortissimo il nepotismo e il clientelarismo, che esistono altre forme di costrizione, che dittatoriali non sono, ma che sono presenti fortemente nella nostra società politica, lavorativa, sociale in un sistema in cui ai giovani che cercano occupazione, in alcuni casi, si chiede prima che lavoro fa loro padre. Ma si devono ricordare anche storie passate, quelle della gente comune: la storia non è stata fatta solo da coloro di cui leggiamo nei libri, ma il più delle volte sono state le persone comuni, che con il proprio coraggio e i propri sacrifici hanno fatto la storia, anche se non compaiono nei libri. E non per questo le loro azioni sono state meno importanti, anzi.
Chiara: la libertà è minacciata ormai, lo sappiamo, cosa ne pensi di quanto accaduto ai Musei Capitolini pochi giorni fa?
Gianmarco: ho pensato che fosse una notizia di “Lercio.it”.
A fare gradita incursione nella casa di Disegnostorie è il caro Stefano Nottoli, cantautore e pianista toscano.
Innegabilmente ricco di talento, caratterizzato da uno stile personale, molto originale, a tratti onirico, decisamente raffinato. I suoi pezzi accompagnano chi ascolta in un mondo fuori dal tempo, popolato da personaggi surreali, poetici e teatrali. La fantasia si accende e la voglia di ballare si fa irrefrenabile.
Cantastorie, cantautore, musicista, attore, performer, docente di scienze presso le scuole superiori.
Un passato di diverse esperienze musicali, attraversando generi e stili diversi e arricchendo la sua gamma espressiva con sfumature ben rintracciabili nel suo lavoro.
Teneva i primi concerti in casa, lo strumento erano i coperchi delle pentole della mamma, la location la cucina. La platea era esigua e l’impianto audio non ancora all’altezza, così, solo i familiari potevano assistervi. Per nostra fortuna, a 16 anni fondava la sua prima band. Successivamente ha cambiato più volte formazione artistica attingendo alle più diverse tradizioni musicali italiane e internazionali, contemporanee e non.
Ha suonato in una band dal nome Guerrilla farming,livornese, di ispirazioneReggae, con la quale, nel 2009, ha potuto creare il suo primo lavoro Naturale con la One step records.
Con il regista Stefano Nicoli, ha scritto colonne sonore e interventi musicali per diversi cortometraggi, come Lucca the north-west corner of Tuscany.
La sua discografia:
Ritagli di tempo – 2012 – Pinolaupitu Production Lo chiamavano Parafango – 2015 – Pinolaupitu Production
Preziose informazioni sui suoi gustosi concerti potrete trovarle su
Chiara: ascoltando questo tuo secondo album “Lo chiamavano Parafango” viene naturale pensare al teatro canzone, si può?
Stefano: Gaber l’ho conosciuto di più con il tempo, ho sempre avuto il fascino del teatro e questa volta ho voluto unire le due cose: c’è una parte recitata e una cantata. Ho un maestro di canto che lavora molto anche con gli attori.
Ho sempre suonato il pianoforte ma poi, a partire dal 2010 ho avuto tanta voglia di cantare e ho iniziato a farlo. Mi sono trovato davanti ad un bivio, ho capito che la strade davanti a me erano due: “o smetto di suonare o inizio a cantare”, mi son detto. Ho ripensato a che cosa mi piacesse davvero fare fin da bambino e l’ho fatto, così ho iniziato a cantare e mi sono reso conto che è ciò che voglio.
Ho avuto anche la fortuna di incontrare un maestro di canto con cui lavorare in modo nuovo. Non si tratta di esercitarsi direttamente sulla voce ma di preparare il corpo e la mente alla voce. Creare le condizioni psicofisiche affinché la voce possa esprimersi al meglio. Così, dopo circa due anni, i benefici che questo lavoro mi stava dando sono diventati tangibili.
Si tratta del “Metodo Funzionale” che si avvale anche di momenti di meditazione e visualizzazione.
Chiara: sono entrata nel tuo sito ed è come entrare a teatro.
Stefano: il sito è curato dal mio batterista, è in realtà molto semplice, come la copertina di “Lo chiamavano Parafango”, che è curata sempre dalla stessa persona. Sono molto contento del risultato.
La teatralità, sì, mi appartiene…Una sera, suonando in un locale di amici, a Lucca, mi è stato detto di somigliare a Manolo Strimpelli, artista lucchese che ha lavorato anche con Capossela. Un grande complimento.
Mi piacerebbe lavorare in un teatro.
Posso dire di essere piuttosto egocentrico, passo da serate dove preferirei soltanto essere ascoltato a altre dove, al contrario, amo fare “caciara” divertendomi a coinvolgere il pubblico in tutti i modi.
Apro una parentesi riguardo al Lucca Summer Festival che, a volte, è molto criticato dalla maggior parte degli artisti lucchesi. Perché invece di limitarsi a criticare cosa non va, non iniziare a fare un Festival degli artisti lucchesi che possa avviarsi e poter, poi, camminare da solo? Se funzionerà, allora sì, in quel caso potremmo pensare anche a future collaborazioni con gli eventi più affermati come il Summer.
E’ importante fare qualcosa di concreto da offrire, qualcosa che funzioni e che possa essere una risorsa vera e non solo una “passerella” stile “next please”, dove ognuno ha solo 5 minuti per poi doversi sbrigare a lasciare spazio ad altri.
L’alternativa alla critica inutile è partire con progetti concreti… proposte diverse che mostrino di funzionare. Risorsa per la città e per il futuro. Qualcosa che possa crescere grazie al riscontro del pubblico. Se non c’è questo step iniziale da parte degli artisti, è difficile realizzare qualcosa visto che, come si sa, nessuno ti viene a cercare.
C: fare rete è fondamentale.
S: sì ci sono molti esempi… anche nella musica, pensiamo a Gazzè Silvestri e Fabi. Hanno in comune gli esordi della loro carriera a Roma, poi si sono dedicati ognuno ai propri percorsi per poi trovarsi di nuovo insieme. Suonare con qualcuno con cui condividi un percorso comune e la stessa voglia di creare può essere una valida risorsa per crescere artisticamente. Una risorsa che dà qualcosa in più e di complementare allo studio tradizionale.
Chiara: per te è stato così?
Stefano: mi capitava quando suonavo nelle jam session. Tornavo a casa davvero arricchito. Erano serate dove ognuno di noi aveva la sua visione della musica da regalare agli altri, interpretazioni inedite di pezzi noti… vivere questo tipo di esperienza era un po’ come aver seguito dieci lezioni tutte insieme.
Lo studio è importante, il lavoro autonomo individuale pure, ma il confronto è fondamentale, ti metti in discussione, ti esponi e puoi attingere a risorse nuove.
Chiara: come sei entrato nel mondo della musica?
Stefano: credo di esserci sempre stato. Mio nonno suonava nella banda paesana, mio fratello aveva amici musicisti così ho potuto sentire il richiamo di questo mondo e la forte voglia di viverlo in prima persona. Avevo una chitarrina e potevo divertirmi tanto provando a suonarla. Andavo a vedere la banda paesana dove si esibiva mio nonno e poi, una volta a casa, eccomi lì a marciare intorno al tavolo della cucina con i coperchietti delle pentole.
Negli anni ‘80 i primi video di Videomusic: mi avevano stregato, improvvisavo esecuzioni, allestivo “palchi” e immaginavo concerti di diecimila persone nella campagna dei dintorni. I giochi in tema di musica erano per me i preferiti e occupavano le mie giornate di bambino. Mio fratello mi aveva insegnato a suonare il flauto prima che andassi a scuola e quando arrivai in classe mi trovai avvantaggiato.
Su consiglio del mio professore di musica iniziai a prendere lezioni. Volevo fare il chitarrista ma nel mio piccolo paese, Santa Maria a Colle, non c’era moltissima scelta… Per fortuna abitava lì vicino una maestra di pianoforte. Per praticità scelsi di imparare a suonare il piano ma con il progetto, in seguito, di realizzare il sogno della chitarra.
In realtà mi sono innamorato del piano e tuttora vi sono artisticamente molto legato.
Fin dall’adolescenza scrivo canzoni, avevo raccolto tanti testi, poi, il fiume vicino a casa mia esondò nel Natale 2009 e distrusse tutte quelle mie creazioni.
Ne sono ancora così dispiaciuto. Anche se molte di quelle canzoni ormai non sarebbero state forse più proponibili erano comunque parti della mia storia, ricordi unici, irripetibili.
Ne ricordo in particolare ancora una: alle medie, nella lezione di italiano qualcuno lesse “a Silvia” uno dei capolavori di Giacomo Leopardi. Io ne fui così colpito che appena arrivai a casa scrissi una canzone su quella poesia.
Non mi ricordo più le parole ma ho memoria soltanto che era scritta in rosso e sono sicuro che oggi avrei potuto riproporla. Purtroppo, nel 2009 non c’era l’abitudine di salvare tutto sul pc.
Chiara: scrivere testi non è come scrivere un diario o un racconto, si tratta di una competenza particolare.
Stefano: sì, è così, a volte vengono proposti corsi che promettono di insegnare a scrivere canzoni. Io non ne sono mai stato attratto, non certo per presunzione, bensì per paura di restare legato a degli schemi, temo di diventare troppo tecnico.
Il senso artistico non ha molto a che vedere con la tecnica.
I cantastorie, come nel passato, non sono persone di studio, ma hanno avuto la capacità di strutturare una loro naturale pratica, legata a un ritmo tutto personale. Amo sperimentare, seguire una mia evoluzione naturale.
Chiara: questa passione per la musica è naturale, nasce con noi o prende forma dalle nostre esperienze prima di bambini poi di uomini? Per te la prima ipotesi sembra più vera.
Stefano: ognuno può parlare per sé. Nel mio caso, sì, questa passione assume i connotati di un bisogno fisiologico… impellente come altri più prosaici!
Qualcosa che mi contraddistingue da sempre.
Un bisogno che scaturisce in modo naturale, non lo si può forzare, si costruisce a poco a poco, ha i suoi tempi.
Un albero che cresce segue il suo ritmo, le sue stagioni, se lo si vuole forzare non ne scaturisce niente o al massimo qualcosa di artificiale. Per me la musica è un bisogno più o meno forte a seconda dei momenti. Sono impulsivo e irruento penso una cosa e la vorrei fare subito ma paradossalmente, in questo caso no.
Sono contento quando mi accorgo di aver creato qualcosa che non sta in una dimensione del tutto razionale. Quando chi mi ascolta apprezza quello che faccio perché è capace di evocare qualcosa che non si riesce neanche a spiegare. Pezzi che “arrivano” e piacciono…un bambino che balla sulle mie canzoni, per me, è una vittoria! Significa che si è arrivati a una dimensione che non è razionale! Mio figlio di tre anni che vuole ascoltare “Il gatto Jack” ottomila volte mi fa contento perché vuol dire che sente in quella canzone qualcosa che va oltre le parole e la storia, qualcosa di magico. Tutti i bambini sanno coglierlo molto bene. Invece nei “talent” tutto è molto studiato. Con tutto il rispetto per i diversi percorsi che ognuno di noi può compiere, spesso, i “talent” sono un po’ fuorvianti, danno una visione molto lontana dalla realtà della musica e del lavoro artistico. Senza contare che tanti cantanti che vi partecipano rischiano di essere poi ricordati dal grande pubblico, per il resto della loro vita, solo perché sono arrivato secondi a “X Factor” e non per un loro particolare talento o per la specificità del loro stile.
Chiara: oggi ci si può avvicinare alla musica per tante ragioni: grazie a un maestro, a un amico, a internet o chissà. Da cosa partiresti per insegnare la musica a un bambino?
Stefano: c’è un film che mi ha colpito molto, “Ray”, ispirato a Ray Charles e alla sua storia incredibile. All’inizio del film lui è già cieco e conosce un signore che sa suonare il piano. Quest’uomo coinvolge Ray bambino chiedendogli di suonare come fosse un parlare, proprio come si fa con la lingua parlata dove ad un suono si risponde con un altro suono. Questo è il modo in cui ha imparato Ray Charles. Credo che sia così con la musica. Un linguaggio come quello delle parole: nella nostra vita seguiamo questo metodo, si parla subito senza prima aver imparato la grammatica, così credo sia meglio imparare a suonare, prima possibile, prima della teoria. Questo si afferma anche con la cosiddetta Audiation del Metodo Gordon che fa parte nella Music Learning Theory.
Mio figlio Riccardo e io a volte facciamo come in quel film.
Il pianoforte, a casa, è sempre aperto. Mi siedo davanti al piano e poso Riccardo sulle ginocchia, poi, inizio a suonare e lui batte le risposte ai miei “discorsi” musicali. Si parla, si comunica tra padre e figlio in un mondo di note. Nel futuro forse potrà scegliere di studiare musica in modo più sistematico o forse farà il calciatore. (ride)
Chiara: mentre parliamo la nostra voce comunica con il suo ritmo e la sua intonazione e non solo con le parole.
Stefano: certi dialetti hanno una musicalità più pronunciata di altri.
In passato tutti cantavano molto di più, oggi è diventata un’attività solo degli artisti. Io non ho sempre cantato. Lo facevo in un gruppo dai 16 ai 18 anni poi ho smesso per un problema di salute e non ho più cantato fino al mio primo disco: avevo deciso di suonare e basta. Ero molto meno intonato di adesso. Ho lavorato molto in questo senso e con tanta fatica posso dire di aver recuperato. Ho ancora molte “finezze” da acquisire e molto orecchio da raffinare ulteriormente, ma un certo miglioramento rispetto al passato, con tanta fatica e lungo lavoro sull’intonazione, c’è stato.
Chiara: ci sono state persone che hanno influito più di altre sulla tua crescita e ispirazione musicale?
Stefano: ultimamente, il lavoro di Bobo Rondelli o Vinicio Capossela mi ha certamente ispirato moltissimo. Sono molti, per me, gli ispiratori, tanti quante sono state le fasi del mio percorso.
Ho ascoltato tanta musica.
Un tempo, tanti anni fa, verso i miei vent’anni, ci sono stati i Subsonica e con la mia band facevamo la loro musica. Di certo, da quando ho deciso di cantare come solista, Capossela mi ha ispirato molto.
Chiara: questa tua trasformazione nel tempo è evidente anche dai tuoi due album. Si può riscontrare molta differenza di stile tra il primo e il secondo.
Stefano: il mio primo lavoro “Ritagli di tempo” nasce dalla voglia di rompere con il passato, da una ispirazione ad un sound molto acustico, ci sono fisarmoniche e violini. Si possono riconoscere tracce del lavoro di Mannarino che apprezzo particolarmente per la sua scrittura dei testi e influenze di Capossela.
Il secondo album è nato da una voglia di rock che doveva essere un recupero di esperienze e passioni passate. Così, in “Lo chiamavano Parafango”, si sono potute sviluppare sonorità che richiamano i Doors ma anche ritmi raggae forse più nascosti, ci sono chitarre elettriche e organetti. La canzone “Sotto le lenzuola” inizia con un levare che può essere ricondotto al reggae e finisce con risonanze acustiche che riportano la memoria ai Doors.
E’ stato molto liberatorio, una volta raccolto il passato si è più liberi per il futuro.
Chiara: per quanto riguarda la canzone “Una giornata ordinaria”, c’è una bellissima voce femminile che interrompe molto l’andamento complessivo dell’album.
Stefano: si tratta di Elisabetta Maulo dei Betta Blues Society. Canta la canzone creando un’ atmosfera molto diversa rispetto a quelle precedenti. Mi sono chiesto, a volte, se sia stata la scelta più giusta ma era ciò che sentivamo in quel momento sotto la spinta di diversi stimoli. L’album, già dal titolo, “Ritagli di tempo” svela la sua natura: nasce da pezzi nati in momenti diversi e sotto l’impulso di differenti suggestioni artistiche.
Per esempio “Paris” prende forma da incontri curiosi avvenuti durante un soggiorno parigino in casa di amici.
Chiara: vari incontri. Ma Leo esiste? I paesini intorno a Lucca sono popolati da personaggi che potrebbero nascondere storie come la sua.
Stefano: Leo è il personaggio protagonista, colui che tutti chiamano Parafango. Sono cresciuto vicino al manicomio di Maggiano. Lucca, la provincia, e tanti altri luoghi, nascondono personaggi simili. Ne ho visti svariati. Leo nasce un po’ da tutti quei personaggi a limite del surreale che possiamo incontrare in certi luoghi.
La storia di Leo nasce in un periodo in cui stavo scrivendo molto e raccontavo storie. Mi chiesero di scrivere un pezzo sulla bicicletta perché in quel momento passava il campionato europeo di ciclismo da Lucca. C’erano vari progetti in programma per farne un cd.
Tuttavia il pezzo restò lì per un bel po’ di tempo e non venne utilizzato per quello scopo. Continuai a scrivere altre storie, tutte parlavano di un personaggio e poi c’era “Che vuoi che sia”, dove descrivo la mia idea della morte. Ho creduto di poter raccogliere queste storie come fossero episodi diversi della vita di un unico personaggio e “Che vuoi che sia” come conclusione. Così ho fatto ed è nato l’album.
Leo esiste e non esiste: una volta, a cena, mio padre e mio nonno raccontavano storie dei loro tempi e proprio a quelle si riferisce “Alcolemico amore”: un loro vecchio amico dal fisico non troppo ordinario e le sue galanti avventure.
Chiara: avventure finché Leo non s’imbatte nel vero amore. Ecco Brunilde.
Stefano: mi sono ispirato al film Django Unchained di Tarantino. Brunilde è un pezzo che nasce da lì. Parla del protagonista del film, “sembra follia ma c’è magia”, è quella storia fino all’esplosione finale dove Django libera la sua compagna Broomhilda.
Chiara: la cultura musicale per un bambino che cresce in cosa può consistere?
Stefano: dobbiamo definire il campo: quale musica e quale bambino, in che contesto?
In termini generali, la musica è necessaria fin dalla gestazione, sempre più studi lo dimostrano. In seguito è meglio imparare a conoscere più musica possibile, avere più stimoli così da permettere ai bambini di scegliere, in seguito, su quali generi focalizzarsi.
La musica educa e di certo ce ne vorrebbe di più.
Gli stimoli da fornire, già a partire dalla scuola, più sono e meglio è.
Non possono essere limitati al “flautino”, come troppo spesso accade.
Credo soprattutto che sia necessaria una maggiore educazione all’ascolto, non è il problema di trovare una scuola di musica o di imparare a studiare uno strumento: le scuole di musica sono tante e non ci sono difficoltà in questo senso. Manca una educazione all’ascolto. Indispensabile come persone, come futuri ascoltatori e come musicisti.
Ho avuto la fortuna di ascoltare molta musica grazie a mio fratello che indirettamente, senza saperlo, ha influito moltissimo sulla mia formazione musicale, aveva 5 anni più di me e anche solo giocando, mi ha, involontariamente, ispirato e introdotto alla musica.
Chiara: quando scrivi un testo che fai?
Stefano: non ho uno schema ben preciso, ho paura degli schemi, non voglio sentirmi legato.
Arrivano generalmente insieme, testo e musica, ma, a volte, invece, no, per esempio, “Tango del mattino” nasce prima per la musica poi come testo.
Quella canzone si riferisce alla storia dei nonni della mia compagna: lui di famiglia di modeste origini aveva potuto trovare scampo dalla guerra suonando in una agiata famiglia.
La sua amata, invece era ricca e nobile. Una storia osteggiata, di cui ritraggo una scena: una passeggiata romantica che rappresenta la loro rivincita davanti a tutti coloro che li hanno derisi e non credevano nella forza del loro sentimento. Ultimamente scrivo molto buttando giù i testi e poi musicandoli dopo: questo sistema mi fa sentire più libero.
Gianmarco Caselli, è un artista lucchese per nascita, cosmopolita per indole, premiato dal Rotary Club Lucca e Rotaract nel 2012 come “Grande talento Lucchese”.
Il suo impegno artistico si riversa in svariate attività: dal mondo dell’insegnamento scolastico formale, (è insegnante di lettere nella scuola secondaria superiore), a quello della ricerca e della musica: Gianmarco Caselli è anche uno sperimentatore, studioso, giornalista e premiato autore di poesie e racconti.
Gianmarco Caselli, backstage di “Pupille”
Negli ultimi anni si è distinto sempre più, soprattutto, come pianista e compositore.
Provando a definirla, la musica di Gianmarco Caselli si caratterizza per una raffinata fusione di elettronica e strumenti tradizionali, poiché non esaurendosi in una sperimentazione fine a se stessa, autoreferenziale, e se vogliamo, superata, cerca invece accordi e punti di contatto tra il presente e il passato, creando futuro.
Negli utlimi anni le sue composizioni hanno ottenuto riconoscimenti in concorsi internazionali e si sono distinte in prestigiosi Festival, (Carnegie Hall di New York, Centre de Cultura Contemporània de Barcelona, Berlino, Kiel, Città del Messico, California, Istituti Italiani di Cultura di Amsterdam, Copenaghen, Amburgo, Londra, Uruguay, Argentina).
Ideatore e direttore artistico del LUCCA UNDERGROUND FESTIVALche si propone di divulgare l’arte, lontana da luoghi comuni, necessità, cliché. Il Festival, quest’anno ha indetto anche un Contest per racconti Horror che in giuria vede nientemeno che il direttore di Splatter e la giornalista Valeria Ronzani, direttrice di Words In Freedom e chiuderà il cartellone con Gary Brackett, Direttore Artistico di The Living Theatre Europa.
Per una esaustiva conoscenza della sua formazione e delle sue svariate collaborazioni e attività rimandiamo ai siti dove è possibile ottenere informazioni anche sui suoi concerti, performances e molto altro.
Il punto di vista di Gianmarco attraversa due mondi: quello dell’arte, come critico, fruitore consapevole e compositore e quello dell’educazione, come insegnante di scuola.
Per questo, è per noi particolarmente prezioso avere la fortunata opportunità di poter conversare con lui, soprattutto in questo periodo unico della sua vita, visto che è diventato papà da pochissimi giorni.
CHIARA: questo blog è dedicato all’infanzia che incontra l’arte. Alle storie d’amore tra bambini e arte, bambini che seguendo un certo cammino, sempre diverso, sempre inedito, una volta grandi, possono definirsi artisti. Gianmarco, vuoi raccontarci la tua storia? Che bambino sei stato e quando hai incontrato la tua “Beatrice?”
GIANMARCO: nella mia famiglia non ci sono stati musicisti, ma cultura, soprattutto letteraria, sì. Il mio primo contatto con la musica quando ero piccolo è stato come quello di tanti altri bambini con una tastierina Bontempi, poi mia madre ascoltava De André. Ho cominciato ad appassionarmi agli ascolti della musica classica quando avevo circa nove anni grazie anche alla professoressa di musica che avevo alle scuole medie. Da piccolo, però, non c’erano occasioni di ascolto e avvicinamento alla musica per bambini, sotto questo punto di vista c’è più attenzione ora. Successivamente, ai tempi del liceo mi sono avvicinato ancora di più a De André, al rock e soprattutto ai Pink Floyd e al punk. Il mio percorso musicale non è stato perciò assolutamente un percorso né regolare né spettacolare.
CHIARA: c’è chi dice che un artista, nel profondo di se stesso, si esibisca, ogni volta, per una persona in particolare. Anche per te è così?
GIANMARCO: no, per un lungo periodo della mia attività la persona a cui mi rivolgevo ero me stesso in contrasto, quasi in opposizione alla moltitudine. Solo quando mi sono reso più libero dallo sforzo di affermarmi ho cominciato a rivolgermi a un’entità indefinita. Successivamente ho scritto e scrivo brani pensati per esecutori specifici o dedicati ad altre persone ma non sono mai stato autoreferenziale: intendo dire che ho sempre cercato di scrivere musica che fosse in grado di comunicare. Non mi piacciono quegli artisti estremamente concettuali che parlano solo a se stessi o a un’élite specifica di ascoltatori.
CHIARA: ogni artista potrebbe, anzi dovrebbe, fare ciò che più lo rappresenta: il grande pittore macchiaiolo Giovanni Fattori insegnò ai posteri che “arte è libertà da ogni formula nova e antica”. Oggi è più difficile?
GIANMARCO: di certo è molto difficile esserlo oggi in Italia. Noi veniamo da un periodo, quello che va dagli anni ’60 agli anni ’80, in cui molti artisti potevano essere ciò che volevano, e questo, oggi, ci fa sentire molto di più il peso di una società in cui molte realtà dedicate all’arte contemporanea sono costrette a chiudere o a vivere di volontariato mentre lo stato dovrebbe incentivarle e sostenerle. C’è stato un imbarbarimento culturale, a mio avviso pianificato, che ci ha fatto tornare indietro di almeno 60 anni. È come se certe sperimentazioni non fossero mai state fatte, e molti artisti sono costretti, per tirare a campare, a non poter esprimere se stessi. Penso con amarezza a quanti musicisti si trovano a eseguire in concerto le solite musiche di compositori certamente grandiosi e famosissimi, ma pur sempre del passato, senza possibilità di portare in tournée un programma di musica contemporanea perché verrebbe snobbato. Quando dico che siamo tornati indietro di almeno 60 anni, penso proprio a questo: una volta che ho scritto un pezzo in stile John Cage in occasione del suo anniversario, ho sentito i commenti di alcune persone di questo tipo: “Oh, anche io saprei fare musica così.”
Perché le persone hanno dimenticato Cage, Stockhausen, anzi, molti non sanno proprio chi siano. Del resto, tanti non conoscono neppure la storia del nostro paese. In compenso conoscono i nomi dei partecipanti ai talent show. La libertà, e spesso anche l’intelligenza e la cultura, come la storia ci ha insegnato, continuano spesso a essere purtroppo sinonimo di isolamento e incomprensione. Io, comunque, non la vivo così e sono contento che tante persone apprezzino la mia musica.
CHIARA: leggendo critiche e recensioni riguardanti le tue composizioni e i tuoi spettacoli, per definirti, ricorre spesso l’aggettivo, “geniale”. Tu sei anche un professore di scuola secondaria superiore: credi che ci siano stili educativi che più di altri possono far emergere il genio creativo degli studenti?
GIANMARCO: ovviamente mi fa piacere l’aggettivo “geniale” e spero di meritarmelo. Per quel che riguarda l’insegnamento, le nuove tecnologie hanno introdotto un nuovo linguaggio con relative tecniche di comunicazione e apprendimento di cui non si può non tenere conto. Ma queste non bastano. Penso sia essenziale far esprimere i ragazzi, fargli interpretare e selezionare i tanti input da cui sono bombardati, e farli lavorare possibilmente in gruppo affinché ricreino, nella relativamente piccola realtà scolastica, un tessuto sociale che è stato distrutto nel nome dell’individualismo.
CHIARA: anchein ambito artistico si corre il rischio dell’autoreferenzialità e come se non bastasse, in Italia, la percentuale di chi va a vedere spettacoli teatrali o ad ascoltare concerti è bassissima. Pensi che la scuola possa fare qualcosa per questo?
GIANMARCO: certo! Fosse per me, essendo in un paese che è la patria dell’opera lirica e una delle maggiori mete artistiche del mondo, la storia della musica e la storia dell’arte dovrebbero essere obbligatorie e presenti con più ore in tutte le scuole. C’è anche da dire che la cultura è sempre in mano ai soliti noti da anni e anni, non vengono coinvolti i giovani neppure nei quadri dirigenziali delle associazioni che organizzano eventi: con quale faccia poi queste associazioni pretendono che, quando allestiscono spettacoli di qualsiasi tipo, i giovani ci vadano? Il discorso vale sia in ambito locale che nazionale, ovviamente.
Per l’autoreferenzialità vale quel che ho detto alla tua seconda domanda, e gli artisti autoreferenziali solitamente finiscono dimenticati come è giusto che sia per coloro che parlano solo a se stessi.
CHIARA: l’insegnamento della musica, in Italia, ma non solo, è davvero limitato e insufficiente. Il sistema scolastico, per la sua struttura, consente che uno psicologo, per esempio, o un medico, un educatore, un insegnante, etc… possano laurearsi a pieni voti ignorando completamente gran parte del nostro patrimonio culturale musicale. Ciò influisce sulla società e sull’idea di essere umano che circola nella coscienza comune?
GIANMARCO: certo. E il risultato è un pubblico disposto ad ingoiare tutto ciò che passa il convento purché non sia sperimentale e si fermi storicamente a Wagner.
CHIARA: per quanto tu scriva musiche per pianoforte atmosferiche, il tratto più caratterizzante della tua musica è l’elettronica sperimentale e l’utilizzo di oggetti, spesso metallici, in scena. Quanto è rimasto nella tua arte di quando eri bambino?
GIANMARCO: ho sempre cercato di utilizzare l’elettronica in un modo un po’ diverso dal solito. Certamente a volte posso scrivere una musica che sembri più tradizionale, ci può stare. Io, personalmente, e mi riallaccio alla tua terza domanda, non seguo assolutamente alcuna regola. Cerco ogni volta di fare quello che voglio. In questo mi sento molto vicino a quello che fanno i bambini: è come se ogni volta volessi scoprire un mondo nuovo anche nell’utilizzo degli strumenti. Con l’elettronica posso creare tantissimi suoni che in natura non esistono, poi da almeno una decina di anni sono abituato a portarmi un registratore in tasca, a raccogliere i suoni del mondo e poi rielaborarli per costruirci nuove sonorità , ma anche a prendere oggetti come pentole, forchette e quant’altro, e suonarli dal vivo.
Gianmarco Caselli, “Pupille”, by Marco Puccinelli
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